Tenaci, irrequiete, ribelli
Elisabetta Rasy. Con garbo e capacità di ascolto l’autrice delinea i ritratti (a parole) di sei pittrici coraggiose e talentuose, da Artemisia Gentileschi a Suzanne Valadon a Frida Kahlo
Elisabetta Rasy torna a occuparsi di donne nella storia e lo fa con un garbo e una capacità di ascolto che sono diventate la cifra stilistica della sua scrittura, all’incrocio tra ricerca e narrazione. Per chi ha amato i suoi primi saggi come
Le donne e la letteratura (1988), sa con quanto impegno l’autrice ha cercato i contorni sbiaditi delle tracce femminili, e anche quanto l’incontro con le altre abbia nutrito i suoi desideri e plasmato la sua stessa voce. Da Ritratti di signora
(1995) che si concentrava su tre grandi autrici italiane, a Memorie
di una lettrice notturna (2009) che invece raccontava la scoperta del talento femminile attraverso molteplici letture, Rasy ha mostrato quanto durevole e prolifica sia la fascinazione prodotta dalle storie. I libri sono davvero oggetti magici e misteriosi come scriveva Garboli, capaci di metterci in contatto con un altrove. Spesso la scrittura di Rasy ha abitato quel confine incerto che ci insegnano i libri, lo spazio che si apre tra le vite e l’immaginazione, tra le biografie di autrici amate e l’impalpabile materia dei loro sogni.
Le disobbedienti si inserisce in questo solco, ormai ben tracciato, in cui si riconoscono la discrezione della testimonianza e la gioia della scoperta. Ad essere raccontate sono, però, le esistenze di sei pittrici in un arco di tempo che va dal diciassettesimo secolo alla prima metà del Novecento, dalla pioniera Artemisia Gentileschi all’icona femminista Frida Kahlo. In mezzo si inseriscono altre donne di talento: Élisabeth Vigée Le Brun, che nel 1778 diventa la ritrattista ufficiale della regina Maria Antonietta, Berthe Morisot, l’unica donna a esporre insieme agli impressionisti, Suzanne Valadon, la donna di umili origini che troverà un riscatto nella pittura simbolista, e l’ebrea tedesca Charlotte Salomon, morta in un campo di concentramento a soli 26 anni, ma sopravvissuta grazie all’eredità dei suoi disegni.
La scrittura di Elisabetta Rasy interroga, dunque, documenti diversi, non più libri ma immagini (anche se alcune fotografie di Frida Kahlo erano state incluse nelle sue Memorie di una lettrice); e così anche il suo ruolo d’interprete cambia: volumi, linee e colori diventano il nuovo alfabeto da decodificare, la ribellione delle artiste un gesto da indovinare nella silenziosa composizione della tela. Se lo sguardo della narratrice si posa con competenza e passione sui quadri, stimolando la memoria o la curiosità del lettore, l’attenzione è però contemporaneamente rivolta a ciò che non si vede, al groviglio di sentimenti e sofferenze che hanno permesso a queste donne di sentirsi delle artiste e persino di rappresentarsi come tali.
Sono, infatti, proprio gli autoritratti ad aprire ogni capitolo del libro, quasi potessero, muse silenti, partecipare al dialogo con la narratrice. Scrutando nei loro occhi e nel loro portamento, Rasy scorge il segno di una virtù particolare, qualcosa che definisce meglio la natura della loro disobbedienza. Se Artemisia ha il coraggio di fronteggiare la violenza e l’umiliazione di un processo per stupro, Élisabeth Vigée Le Brun ha la tenacia di seguire la sua ambizione, anche quando la rivoluzione francese farà crollare il mondo delle corti che l’aveva portata al successo. Berthe Morisot incarna, invece, l’irrequietezza, una virtù che la rende quasi nostra contemporanea. In lei c’è la solitudine di sentirsi diversa, non solo moglie e madre; ci sono l’ammirazione e la rivalità per i suoi colleghi uomini. Come Morisot, immortalata più volte da Édouard Manet, anche di Suzanne Valadon, eroina della ribellione, si conservano numerosi ritratti. Questa ragazza venuta dalla strada, senza una vera famigla né un’educazione, diventa un giorno la modella di artisti affermati come Puvis de Chavannes e Renoir, più avanti, la compagna di Toulouse Lautrec. La sua intelligenza la porta a continue metamorfosi: da modella ad artista e, infine, paradossalmente per lei che era stata un’autodidatta, anche maestra di suo figlio, il pittore Maurice Utrillo. Risalendo in ordine cronologico, Rasy incontra la resistenza in Charlotte Solomon, il cui destino è spezzato dalla violenza nazista. Giovane studentessa dell’accademia d’arte di Berlino, Charlotte è costretta all’esilio in Francia e alla separazione da Alfred Wolfsohn, il mentore di cui è probabilmente anche innamorata. Il presentimento della morte la spinge a comporre, in pochi anni, la sua opera omnia: migliaia di disegni autobiografici raccontano la sua gioia di vivere. L’ultima tappa del libro ci conduce in Messico a conoscere la passione di Frida Kahlo: quella tormentata per il marito, il pittore Diego Rivera, e quella per la sua nazione appena nata, di cui diventa subito ambasciatrice, rivisitando nella sua pittura antiche tradizioni folcloristiche.
Nella loro eccezionalità artistica ed umana, ognuna di queste donne offre una lezione etica che Rasy sapientemente raccoglie per tramandarla al lettore, senza tuttavia imporre il suo giudizio. Pochi i riferimenti che scavalcano il contesto storico, rare le intrusioni della “ricercatrice” nelle lettere o negli atti ufficiali. Eppure, come nelle opere più riuscite, queste singole storie rivelano una loro necessaria complementarità. Viaggiando dall’Italia di Artemisia al Messico di Frida Khalo, l’autrice ci mostra come è cambiato il gusto, e come le donne siano riuscite a trasformarsi da oggetti del desiderio a soggetti desideranti.