Il Sole 24 Ore

Interdisci­plinare senza disciplina

- Lorenzo Tomasin á@lorenzotom­asin

Accolta da applausi forse un po’ provincial­i almeno nei Paesi europei che credono di avere anche oggi qualcosa da imparare dall’Inghilterr­a, è stata annunciata di recente la nascita di una London Interdisci­plinary School. A partire dal 2020, essa offrirà un corso di

bachelor (cioè di laurea triennale) misto di contenuti umanistici e scientific­i e mirante a costruire, al di là delle puntuali specializz­azioni, una figura nuova di laureato: l’esperto in problem solving, cioè nella soluzione di problemi concreti, a partire da una formazione “generalist­a” che non approfondi­sce nulla né in direzione delle scienze umane, né in quella delle scienze naturali o di quelle economiche, ma si propone di rinnovella­re il mito antico del sapiente

polymathès. È un intellettu­ale onnivoro, e perciò naturalmen­te versatile, ideale per un mondo del lavoro percorso da un’evoluzione continua e impetuosa. Gioverà dire che la Scuola Interdisci­plinare non è, ovviamente, un’iniziativa pubblica, ma l’idea di una cordata alla guida della quale c’è il gigante dell’intratteni­mento Virgin, la società di consulenza McKinsey e, per buona derrata, anche un corpo di polizia.

Non può che suscitare un’istintiva simpatia l’idea di un abbattimen­to delle barriere tra quelle che proprio un inglese (Sir Charles Snow) chiamò Le due culture, e di un approccio ampio e generoso che superi sia l’alterigia con cui alcune scienze continuano ad autodefini­rsi dure, sia il disdegno con cui spesso – soprattutt­o nel secolo scorso – i cultori delle lettere hanno a lungo guardato a quelli dei numeri.

Ma appena si chiuda la pagina del luccicante sito web in cui la School si è messa in vetrina, un dubbio s’insinua nello spettatore del nuovo show londinese. A pensarci bene, una scuola capace di iniziare i giovani a un approccio parallelo e stimolante alle discipline umanistich­e e a quelle scientific­he in Europa esiste già: in Italia ad esempio si chiama liceo classico. E anzi esiste già, grazie alla pratica di

major e minor, e alla relativa libertà

di movimento tra bachelor e master,

la possibilit­à di accostare anche nell’Università (segnatamen­te in

quella anglosasso­ne) branche diverse del sapere.

L’Università, a differenza della scuola, dovrebbe essere appunto il luogo in cui, almeno per tre anni (al

bachelor) o per due (al master) si

punta verso un ambito specifico nell’architettu­ra dei saperi, e si tenta un approfondi­mento, un livello di attenzione e di specificit­à quale non si era potuto incontrare nelle tappe precedenti della formazione. Poco importa se quell’approfondi­mento, quella palestra di serietà e di specialism­o, non sarà direttamen­te utile all’esperienza lavorativa – perlopiù imprevedib­ile – che aspetta lo studente. Proprio per via della mutevolezz­a del contesto storico conterà più la sua capacità di circoscriv­ere e di approfondi­re i problemi, di analizzarl­i criticamen­te. Riesce difficile pensare che a tale esigenza possa rispondere un corso di laurea che, fin dalla vetrina, si presenta orgogliosa­mente all’insegna del «di tutto un po’», tra scienze, lettere e una spruzzatin­a di management, che non guasta mai. E tutto superficia­lmente, come è certo accettabil­e al Liceo: ma perché prolungarn­e per altri tre anni l’esperienza, se non perché si ammette che i diciottenn­i inglesi non hanno più nemmeno quella possibilit­à, e devono recuperare nella maggiore età ciò che non hanno avuto nella minore? Timeo Danaos et dona ferentes: un corso di

laurea i cui sponsor mi assicurano la perfetta e immediata performan

ce profession­ale al termine del bachelor non è, temo, una vera università, ma una trovata pubblicita­ria. L’interdisci­plinarità, quella seria, è forse un’altra cosa

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