Interdisciplinare senza disciplina
Accolta da applausi forse un po’ provinciali almeno nei Paesi europei che credono di avere anche oggi qualcosa da imparare dall’Inghilterra, è stata annunciata di recente la nascita di una London Interdisciplinary School. A partire dal 2020, essa offrirà un corso di
bachelor (cioè di laurea triennale) misto di contenuti umanistici e scientifici e mirante a costruire, al di là delle puntuali specializzazioni, una figura nuova di laureato: l’esperto in problem solving, cioè nella soluzione di problemi concreti, a partire da una formazione “generalista” che non approfondisce nulla né in direzione delle scienze umane, né in quella delle scienze naturali o di quelle economiche, ma si propone di rinnovellare il mito antico del sapiente
polymathès. È un intellettuale onnivoro, e perciò naturalmente versatile, ideale per un mondo del lavoro percorso da un’evoluzione continua e impetuosa. Gioverà dire che la Scuola Interdisciplinare non è, ovviamente, un’iniziativa pubblica, ma l’idea di una cordata alla guida della quale c’è il gigante dell’intrattenimento Virgin, la società di consulenza McKinsey e, per buona derrata, anche un corpo di polizia.
Non può che suscitare un’istintiva simpatia l’idea di un abbattimento delle barriere tra quelle che proprio un inglese (Sir Charles Snow) chiamò Le due culture, e di un approccio ampio e generoso che superi sia l’alterigia con cui alcune scienze continuano ad autodefinirsi dure, sia il disdegno con cui spesso – soprattutto nel secolo scorso – i cultori delle lettere hanno a lungo guardato a quelli dei numeri.
Ma appena si chiuda la pagina del luccicante sito web in cui la School si è messa in vetrina, un dubbio s’insinua nello spettatore del nuovo show londinese. A pensarci bene, una scuola capace di iniziare i giovani a un approccio parallelo e stimolante alle discipline umanistiche e a quelle scientifiche in Europa esiste già: in Italia ad esempio si chiama liceo classico. E anzi esiste già, grazie alla pratica di
major e minor, e alla relativa libertà
di movimento tra bachelor e master,
la possibilità di accostare anche nell’Università (segnatamente in
quella anglosassone) branche diverse del sapere.
L’Università, a differenza della scuola, dovrebbe essere appunto il luogo in cui, almeno per tre anni (al
bachelor) o per due (al master) si
punta verso un ambito specifico nell’architettura dei saperi, e si tenta un approfondimento, un livello di attenzione e di specificità quale non si era potuto incontrare nelle tappe precedenti della formazione. Poco importa se quell’approfondimento, quella palestra di serietà e di specialismo, non sarà direttamente utile all’esperienza lavorativa – perlopiù imprevedibile – che aspetta lo studente. Proprio per via della mutevolezza del contesto storico conterà più la sua capacità di circoscrivere e di approfondire i problemi, di analizzarli criticamente. Riesce difficile pensare che a tale esigenza possa rispondere un corso di laurea che, fin dalla vetrina, si presenta orgogliosamente all’insegna del «di tutto un po’», tra scienze, lettere e una spruzzatina di management, che non guasta mai. E tutto superficialmente, come è certo accettabile al Liceo: ma perché prolungarne per altri tre anni l’esperienza, se non perché si ammette che i diciottenni inglesi non hanno più nemmeno quella possibilità, e devono recuperare nella maggiore età ciò che non hanno avuto nella minore? Timeo Danaos et dona ferentes: un corso di
laurea i cui sponsor mi assicurano la perfetta e immediata performan
ce professionale al termine del bachelor non è, temo, una vera università, ma una trovata pubblicitaria. L’interdisciplinarità, quella seria, è forse un’altra cosa