Sottile ribellione pedagogica
Fascismo & scuola. Le storie di dodici insegnanti che dissero no al regime
Le conseguenze
pagate da tre maestre per le loro azioni esplicite
di resistenza
Un bambino vestito da Balilla a un tratto si libera di elmo e moschetto, che per lui sono una semplice maschera, e corre a salvare un compagno caduto in un laghetto. Questa piccola provocazione messa in scena nel cuore del ventennio dai piccoli allievi del maestro Aurelio è raccontata in Insegnare libertà (Donzelli editore) in cui Massimo Castoldi ha raccolto e ricostruito le storie di dodici maestre e maestri antifascisti, che nei modi più diversi hanno sperimentato forme sottili ed efficaci di ribellione pedagogica.
Una documentata introduzione storica ricostruisce il quadro di come si è andata trasformando la scuola elementare nella prima metà del secolo scorso. Siamo passati in Italia dall’innovativa legge voluta dal ministro Vittorio Emanuele Orlando nel 1904, in cui l’obbligo scolastico fu portato a 12 anni, alla legge del 1911, in cui le scuole elementari divennero statali e fu massima l’attenzione verso la scuola di base da parte di socialisti e cattolici popolari, perché allora si credeva davvero che la lotta all’analfabetismo e all’ignoranza fosse fonte di giustizia e di progresso. Probabilmente quell’interesse era accresciuto dal fatto che il suffragio universale maschile a 21 anni appena introdotto era condizionato dal possedere la licenza elementare, con la curiosa eccezione dei soldati, che votavano a 18 anni, e di coloro che non avevano frequentato le elementari, che dovevano attendere di compiere 30 anni per votare.
Verso la fine degli anni Venti, in concomitanza con lotte sindacali e sociali sempre più accese, anche la classe magistrale viene coinvolta in una crescente politicizzazione ed è in questo contesto che si formano le maestre e i maestri di cui si narra.
È noto che la scuola giocò un ruolo rilevante nel processo di fascistizzazione della società seguito alla presa del potere di Mussolini. Era lì che gli italiani, fin da bambini, si dovevano adeguare a una «educazione guerriera», per prepararsi all’ «ineluttabilità della lotta tra i popoli (…) feconda al progredire dell’umano incivilimento», come recitavano i documenti ufficiali.
Ma ecco che in questo contesto di militarizzazione dell’istruzione, troviamo il maestro Aurelio Castoldi che, di nuovo attraverso il teatro, propone ai bambini il monologo «È bello studiare!», in cui si narra dello stupore di un ragazzo svogliato, che il padre porta in una scuola serale, facendolo restare di stucco di fronte a un folto gruppo di operai che, dopo una giornata in officina, ascoltano con grande attenzione le parole di un maestro fino a tarda notte. Raccontare ai bambini lo studio come forma di emancipazione delle classi subalterne in anni in cui prevaleva il più complice conformismo era dirompente.
Anche il materano Giuseppe Latronico, direttore scolastico amico di Gobetti, porta la sua critica al regime in modo velato e indiretto, inserendo in un’antologia la storia di Balilla, nome che evoca la militarizzare dell’infanzia avvenuta a partire dal 1926, con l’istituzione dell’Opera nazionale Balilla. Rovesciando l’uso corrente di quel nome tanto evocato, inserisce in una sua antologia la vera storia di Balilla, «leggendario eroe del risorgimento genovese, non piccolo soldato del duce, ma giovane libero nemico di oppressione e prepotenza».
Le tre maestre di cui si narra appaiono più radicali nelle forme d’opposizione che praticarono. Anna Botto, che aveva portato i suoi allievi al funerale di un partigiano ucciso, ne pagherà le conseguenze in modo estremo, finendo i suoi giorni nel lager di Ravensbrück, mentre Mariangela Maccioni, in corrispondenza con Emilio Lussu da Nuoro, trova il modo di opporsi al regime con i suoi allievi, in anni in cui i docenti venivano schedati osservando se insegnavano a fare il saluto romano in modo “fervido”, “tiepido” o “sospetto”. Si rifiutò di indossare la divisa, di donare alla patria la sua fede nunziale e trovò il modo di criticare la guerra d’Africa di fronte ai bambini e a una collega che «salutava un ufficiale in partenza dicendogli come augurio: portami una dozzina di teste di negri».
Se le forme sotterranee di resistenza al fascismo narrate affondano le loro radici nella spinta a una scuola impegnata alla liberazione dall’ignoranza che caratterizzò i primi vent’anni del secolo, è anche vero che, una volta sconfitto il fascismo, ritroviamo l’amarezza di Mariangela Maccioni che chiede il collocamento a riposo anticipato nel 1953, «delusa dalla scuola della repubblica, troppo simile ancora a quella fascista e per nulla intenzionata a cambiare».