Le imprese guardino al beneficio comune
Umberto Tombari. La contrapposizione tra interessi e potere al tempo della crisi
La crisi ha rimesso in discussione molte istituzioni fondamentali dell’economia di mercato, a partire dalla cellula fondamentale di organizzazione dell’attività produttiva, cioè l’impresa. Sono sempre più diffuse le diagnosi secondo cui se le banche hanno assunto rischi eccessivi, hanno venduto titoli rivelatisi poi “tossici”, hanno remunerato i loro manager come emiri arabi, salvo poi tendere umilmente il cappello per essere salvate a spese dei contribuenti, una delle cause fondamentali (per alcuni la causa causarum) va ricercata non (solo) all’interno del sistema finanziario, ma nei meccanismi di funzionamento delle imprese e in particolare di quelle di grandi dimensioni.
Tutto sommato, è un déjà vu. Anche la Grande Depressione aveva favorito un simile ripensamento e portato alla famosa analisi di Berle e Means, che ancora ispira gran parte del pensiero (e delle legislazioni) in materia di impresa. I due autori muovevano dalla constatazione che «la grande impresa azionaria implica una concentrazione di potere economico paragonabile al potere religioso assunto dalla Chiesa nel Medioevo o a quello politico assunto dallo Stato nazionale». Chissà cosa avrebbero scritto se avessero conosciuto Facebook o Huawei. E aggiungevano che «una così grande concentrazione di potere e una tale diversità di interessi sollevano il problema a lungo dibattuto del potere e della sua disciplina, nonché degli interessi e della loro protezione».
Queste riflessioni si ripropongono ancora oggi e vengono elaborate alla luce dei problemi odierni in questo breve ma corposo saggio di Umberto Tombari che muove dalla constatazione che negli ultimi tempi l’impresa capitalistica è apparsa come una delle maggiori cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. «Le grandi società nazionali e multinazionali sono state generalmente percepite come soggetti che prosperano a danno o a spese della comunità di riferimento». E giustamente, fin dal titolo, mette in evidenza come i termini della questione siano tutti nella contrapposizione fra potere e interessi, dunque in termini giuridici nell’equilibrio fra disciplina e tutela.
Partendo dal tema degli interessi, l’autore porta ulteriori elementi a carico delle teorie che vogliono quelli degli azionisti prevalere su tutti gli altri e – attraverso un’ampia analisi comparata – mostra come in altri ordinamenti (ad esempio quello tedesco) l’equilibrio fra shareholder e altri stakeholder sia risolto facendo carico all’organo amministrativo di realizzare un’adeguata compensazione e mediazione di tutti gli interessi coinvolti nell’impresa. La primazia dello shareholder value è relativamente recente, divenuta dominante nella prassi e nella teoria economica del diritto solo perché faceva coincidere gli interessi di breve periodo degli azionisti con quelli dei manager, risolvendo il problema di Berle e Means con la più classica eterogenesi dei fini, perché in questo modo si sono verificate tutte le distorsioni e i problemi generali che Tombari puntualmente individua.
Il fatto è che in questa visione le finalità d’impresa vengono piegate alla pura realizzazione del profitto, secondo la cinica espressione di Milton Friedman: «The business of business is business», mentre l’impresa nasce e vive per scopi ben più ampi (e nobili), che coinvolgono la qualità e l’estetica dei beni prodotti, i clienti, i fornitori, i lavoratori, l’ambiente circostante. Il profitto deve essere un mezzo per raggiungere questi fini, non un fine in sé stesso.
Tombari vede con favore che l’ordinamento italiano abbia recepito questo problema introducendo la figura della società benefit, cioè quella che, oltre allo scopo di distribuire l’utile, si propone anche finalità di beneficio comune. Ma è difficile immaginare che questo modello si possa applicare alla generalità delle grandi aziende, così come è ovvio che non basta obbligare le aziende a redigere uno speciale bilancio di responsabilità sociale. Secondo Tombari i tempi sono maturi per riscrivere l’articolo del codice civile (il 2247) che sancisce la regola generale secondo cui il potere gestionale in ogni società, piccole o grandi che siano, ha come riferimento essenziale l’interesse dei soci alla produzione e distribuzione di utili. Dal punto di vista giuridico, un mutamento sostanziale, dal punto di vista ideologico e pratico, una vera rivoluzione. Ma l’insegnamento di ogni grande crisi è che bisogna saper mettere in discussione anche le fondamenta dell’economia di mercato. Come diceva un consigliere di Obama: «Non sprechiamo una buona crisi».
Non solo profitto, ma anche qualità
dei beni, clienti, fornitori, lavoratori,
tutela ambientale