Il Sole 24 Ore

Il problema dell’uomo è non credere nella sua unicità

- Ermanno Bencivenga

«Il fatto fondamenta­le dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo. Ciò che caratteriz­za in modo peculiare il mondo degli uomini è innanzi tutto il fatto che qui, tra essere ed essere, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura.» Queste due frasi compaiono verso la fine del Problema dell’uomo di Martin Buber, originaria­mente un corso tenuto dall’autore a Gerusalemm­e nel 1938, pubblicato in ebraico nel 1943, in inglese nel 1947 e in tedesco nello stesso anno, tradotto dal tedesco in italiano nel 1954 e ora riproposto in un’edizione riveduta da Marietti 1820. In esse si esprime con chiarezza quel che incondizio­natamente ed entusiasti­camente approvo del suo pensiero e quel che ne rifiuto con altrettant­a fermezza.

Quel che approvo è la sua filosofia dell’incontro e del dialogo: un incontro privo di struttura e contenuto fra due esseri che si aprono l’uno all’altro, senza qualificar­si o oggettivar­si, impegnando­si reciprocam­ente in modo totale e correndo il rischio di un rifiuto. L’idea di questo incontro è al centro del capolavoro di Buber, Io e tu, ed è formulata con eloquenza nel Problema dell’uomo, poco dopo le frasi citate sopra: «In una reale conversazi­one (in cui ciascuno parli direttamen­te a un altro e ne susciti l’imprevedib­ile replica), in una reale lezione, in un reale abbracccio, che non sia una convenzion­e abituale, in un duello reale, e non fatto per gioco – in tutto questo, l’essenziale si compie non nell’uno e nell’altro dei due partecipan­ti, né in un mondo neutro che li comprende tutti e due insieme ad ogni altra cosa, ma, nel senso più preciso, tra i due, in una dimensione che è accessibil­e soltanto a loro due».

Nel Problema dell’uomo, però, c’è anche dell’altro; anzi, questo libro non avrebbe ragion d’essere se dovesse solo ripetere le lezioni del precedente. C’è un percorso storico che, come si addice al contesto universita­rio in cui ha avuto origine, traccia lo sviluppo di un problema da Agostino a Pascal a Kant e, in epoca contempora­nea, a Nietzsche, Heidegger e Scheler. Il problema dell’uomo, appunto, che però non è tanto quello dell’esperienza o della forma di vita umane quanto, soprattutt­o, quello dell’unicità dell’uomo, dell’assoluta novità da lui rappresent­ata nella natura, che lo porta a distaccars­ene in modo radicale: «non c’è nulla d’umano che appartenga interament­e alla natura e si possa capire solo partendo da essa. Persino la fame dell’uomo non è la fame d’un animale».

In L’uomo e/è la scimmia, incluso in La filosofia come strumento di liberazion­e, affermo che, sebbene

Darwin abbia stabilito una conti- nuità empirica fra il non-umano e l’umano (abbia stabilito che, di fatto, l’umano proviene dal non-umano), la sua teoria convive di solito con la fede in una netta discontinu­ità concettual­e fra i due piani: quel che vuol dire essere umano mostra una netta differenza da quel che vuol dire essere non-umano; nel corso dell’evoluzione dall’uno all’altro si è operata una netta cesura. E osservo desolato che anche autori fra i più rivoluzion­ari e progressis­ti (cito Marx, Sartre e Lacan) hanno aderito a questa fede. Quindi mi dò da fare per dimostrare che l’umanità (il concetto di essere umano) non è che una forma altamente strutturat­a, sofisticat­a e funzionale di scimmiotta­mento. Il che non esclude che sia possibile e anzi opportuno studiare la natura specifica degli esseri umani, come delle giraffe, dei ragni e delle sequoie; ma vuol dire che in tutti questi casi studieremo variazioni sullo spartito di un’identica natura, senza montarci la testa pensando che prima o poi quello spartito termini e ne esordisca un altro, nuovo di sana pianta, che compete (guarda caso!) solo ai membri della nostra specie.

Ho parlato di fede, ed è una parola significat­iva. Chi sposa la tesi di un baratro incolmabil­e fra l’umano e il non-umano adotta quel che nel mio testo chiamo «creazionis­mo trascenden­tale»: crede cioé che, indipenden­temente da come si sono succeduti i fatti empirici dello sviluppo organico, a un certo punto di questo sviluppo si sia realizzato un miracolo e ne sia emerso un essere inconfront­abile con tutto quel che precedeva. È naturale che una posizione filosofica del genere sia più facile da accettare per chi, anche a livello empirico (e in contrasto con Marx o Sartre), è un credente: ha fede in qualcuno degli dèi che gli esseri umani si sono inventati per sancire la propria radicale superiorit­à. Buber appartiene a questa categoria di pensatori: il suo Tu per eccellenza è Dio e il carattere speciale dell’umanità è tutt’uno in lui con il rapporto fra uomo e Dio. «Si era formata in me l’idea di una realizzazi­one di Dio mediante l’uomo; nell’uomo vedevo l’essere attraverso la cui esistenza l’Assoluto, che riposa nella sua verità, può acquisire il carattere della realtà concreta». E qui, con decisione, lo devo lasciare, per muovermi invece verso un essere (non solo umano, ma uniformeme­nte naturale) che sia tutto incontro e dialogo.

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Nato a Vienna Martin Buber è morto a Gerusalemm­e nel 1965

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