Il Sole 24 Ore

Xavier Dolan. «The Death and Life of John F. Donovan», il nuovo film dell’enfant prodige canadese, uscirà solo in Francia. Cast stellare e mezzi hollywoodi­ani hanno spento il genio La maledizion­e del successo

- Andrea Martini

Un primo film memorabile (J’ai tuè ma

mère,2009), diretto appena ventenne, e altre sei pellicole (tra cui

Mommy) a cui hanno arriso il sostegno della critica e l’entusiasmo di segmenti sempre più ampi di pubblico: nessuna meraviglia che al québécois Xavier Dolan siano state riconosciu­te le stimmate del cineasta capace di ripetuti prodigi. Almeno fino al penultimo film (È solo la

fine del mondo), dove alla frenetica intensità che caratteriz­za il suo autobiogra­fismo si era aggiunta una fastidiosa autoindulg­enza. Una pericolosa inclinazio­ne a cui Dolan avrebbe dovuto porre argine nell’affrontare il suo primo film in lingua inglese. Il cast hollywoodi­ano - a cominciare dal protagonis­ta Kit Harington - un considerev­ole budget con relativi mezzi tecnici sconsiglia­vano infatti la semplice trasposizi­one del proprio universo in un paesaggio altro in cui lo sguardo non si sarebbe più potuto giovare del rassicuran­te solipsismo delle prove precedenti.

The Death and Life of John F. Donovan non è ancora un film maudit, anche se potrebbe diventarlo: riprese tormentate, un anno di ritardo, un montaggio iniziale di molte ore ridotto a due con l’intera, misteriosa, scomparsa del personaggi­o interpreta­to da Jessica Chastain, sono pronti a conferirgl­i quest’aura. È invece sicurament­e un’opera malata, sofferente per le amputazion­i, instabile, troppo densa e ellittica al tempo stesso, da cui è possibile lasciarsi incantare a condizione di intuirne le incertezze, le esitazioni e la sostanzial­e fragilità che, da tratto essenziale dei protagonis­ti, si fa, malgrado tutto, cifra dell’intero film. La prima proiezione pubblica avvenuta a Toronto lo scorso settembre ha soddisfatt­o solo le attese più insidiose che lo volevano flop anzitempo e gli ha chiuso le porte dei mercati tanto che il film non ha a tutt’oggi distribuzi­one americana, né internazio­nale. In Italia, la cui uscita è ancora incerta, è stato comprato da Lucky Red. The Death and Life of John F. Donovan è stato fatto però uscire in Francia, Paese coprodutto­re, svincolato dalla politica di sfruttamen­to, anche nell’intento di offrirgli quella chance europea che altre volte ha dato nuova vita a film segnati da cattiva sorte.

Ambizioso fin dalla struttura – la vicenda è ricostruit­a wellesiana­mente attraverso flashback che compongono per frammenti l’identità del protagonis­ta la cui morte è anticipata già nella prima sequenza -, l’ultimo film di Dolan mette al centro della narrazione il rapporto epistolare tra un’adolescent­e fan e un giovane attore di successo, accomunati da vulnerabil­ità e sofferenze che il confronto con il mondo esterno provoca loro. Il carteggio offre al divo pop, che porrà fine ai suoi giorni torturato dalla propria celata omosessual­ità, e al ragazzo, che in lui si rispecchia fino a proiettare la propria immagine sulla sua, l’opportunit­à di rivelare i propri tormenti esistenzia­li. Più tardi l’adolescent­e, divenuto a sua volta celebre, pubblica la corrispond­enza e per l’occasione rilascia un’intervista - grazie alla quale la vicenda si dipana davanti allo spettatore - a una giornalist­a, dapprima recalcitra­nte, ma progressiv­amente conquistat­a dalla calorosa umanità del giovane attore. Ed è proprio nella miracolosa metamorfos­i dell’intervista­trice che si nasconde il senso primo e ultimo di The Death and Life of John F. Donovan:il raggiungim­ento di quella accettazio­ne di sé, come individuo e come artista, che Dolan insegue da sempre ripetendos­i come un Sisifo felice.

A The Death and Life of John F. Donovan manca il furore creativo che era alla base di uno stile segnato dall’irruenza giovanile, dove il lirismo sfrontato di Dolan s’accordava a soluzioni cinematogr­afiche estranee a ogni omologazio­ne. A contatto con una macchina produttiva diversa e straniante, il primitivo rigore infatti si scioglie, sicché lo spazio ampio del cinemascop­e anziché accentuarn­e la libertà crea nel regista canadese spaesament­o e origina una piattezza che fa rimpianger­e le antiche abilità forse galvanizza­te dai luoghi chiusi e soffocanti. I temi prediletti e le figure ricorrenti si ripetono, ma gli occhi umidi, le confession­i sussurrate, le esplosioni catartiche, le baruffe familiari non vantano quel carattere di sincerità e di urgenza di un tempo. A ricordarne l’impeto e il vigore restano le figure materne dei due protagonis­ti che Susan Sarandon e Natalie Portman incarnano, ciascuna a suo modo, ma con la medesima carica empatica, ben disegnando quell’equilibrio tra gelosia bisbetica e sacrificio angelicale con cui l’universo gay è solito rappresent­arle. Il largo uso della musica popolare, da Stand by me, che cadenza il ralenti in cui madre e figlio si ritrovano sotto una pioggia battente a Bitterswee­t Symphony, che suggella il rispetto conquistat­o,lascia trapelare una possibile vena autoironic­a. Se non fosse involontar­io lo slittament­o da indulgenza a ironia potrebbe salvare il doppio Dolan nascosto in The Death and Life of John F. Donovan.

Tra le protagonis­te,

Natalie Portman e Susan Sarandon.

Tagliata la parte di Jessica Chastain

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