Xavier Dolan. «The Death and Life of John F. Donovan», il nuovo film dell’enfant prodige canadese, uscirà solo in Francia. Cast stellare e mezzi hollywoodiani hanno spento il genio La maledizione del successo
Un primo film memorabile (J’ai tuè ma
mère,2009), diretto appena ventenne, e altre sei pellicole (tra cui
Mommy) a cui hanno arriso il sostegno della critica e l’entusiasmo di segmenti sempre più ampi di pubblico: nessuna meraviglia che al québécois Xavier Dolan siano state riconosciute le stimmate del cineasta capace di ripetuti prodigi. Almeno fino al penultimo film (È solo la
fine del mondo), dove alla frenetica intensità che caratterizza il suo autobiografismo si era aggiunta una fastidiosa autoindulgenza. Una pericolosa inclinazione a cui Dolan avrebbe dovuto porre argine nell’affrontare il suo primo film in lingua inglese. Il cast hollywoodiano - a cominciare dal protagonista Kit Harington - un considerevole budget con relativi mezzi tecnici sconsigliavano infatti la semplice trasposizione del proprio universo in un paesaggio altro in cui lo sguardo non si sarebbe più potuto giovare del rassicurante solipsismo delle prove precedenti.
The Death and Life of John F. Donovan non è ancora un film maudit, anche se potrebbe diventarlo: riprese tormentate, un anno di ritardo, un montaggio iniziale di molte ore ridotto a due con l’intera, misteriosa, scomparsa del personaggio interpretato da Jessica Chastain, sono pronti a conferirgli quest’aura. È invece sicuramente un’opera malata, sofferente per le amputazioni, instabile, troppo densa e ellittica al tempo stesso, da cui è possibile lasciarsi incantare a condizione di intuirne le incertezze, le esitazioni e la sostanziale fragilità che, da tratto essenziale dei protagonisti, si fa, malgrado tutto, cifra dell’intero film. La prima proiezione pubblica avvenuta a Toronto lo scorso settembre ha soddisfatto solo le attese più insidiose che lo volevano flop anzitempo e gli ha chiuso le porte dei mercati tanto che il film non ha a tutt’oggi distribuzione americana, né internazionale. In Italia, la cui uscita è ancora incerta, è stato comprato da Lucky Red. The Death and Life of John F. Donovan è stato fatto però uscire in Francia, Paese coproduttore, svincolato dalla politica di sfruttamento, anche nell’intento di offrirgli quella chance europea che altre volte ha dato nuova vita a film segnati da cattiva sorte.
Ambizioso fin dalla struttura – la vicenda è ricostruita wellesianamente attraverso flashback che compongono per frammenti l’identità del protagonista la cui morte è anticipata già nella prima sequenza -, l’ultimo film di Dolan mette al centro della narrazione il rapporto epistolare tra un’adolescente fan e un giovane attore di successo, accomunati da vulnerabilità e sofferenze che il confronto con il mondo esterno provoca loro. Il carteggio offre al divo pop, che porrà fine ai suoi giorni torturato dalla propria celata omosessualità, e al ragazzo, che in lui si rispecchia fino a proiettare la propria immagine sulla sua, l’opportunità di rivelare i propri tormenti esistenziali. Più tardi l’adolescente, divenuto a sua volta celebre, pubblica la corrispondenza e per l’occasione rilascia un’intervista - grazie alla quale la vicenda si dipana davanti allo spettatore - a una giornalista, dapprima recalcitrante, ma progressivamente conquistata dalla calorosa umanità del giovane attore. Ed è proprio nella miracolosa metamorfosi dell’intervistatrice che si nasconde il senso primo e ultimo di The Death and Life of John F. Donovan:il raggiungimento di quella accettazione di sé, come individuo e come artista, che Dolan insegue da sempre ripetendosi come un Sisifo felice.
A The Death and Life of John F. Donovan manca il furore creativo che era alla base di uno stile segnato dall’irruenza giovanile, dove il lirismo sfrontato di Dolan s’accordava a soluzioni cinematografiche estranee a ogni omologazione. A contatto con una macchina produttiva diversa e straniante, il primitivo rigore infatti si scioglie, sicché lo spazio ampio del cinemascope anziché accentuarne la libertà crea nel regista canadese spaesamento e origina una piattezza che fa rimpiangere le antiche abilità forse galvanizzate dai luoghi chiusi e soffocanti. I temi prediletti e le figure ricorrenti si ripetono, ma gli occhi umidi, le confessioni sussurrate, le esplosioni catartiche, le baruffe familiari non vantano quel carattere di sincerità e di urgenza di un tempo. A ricordarne l’impeto e il vigore restano le figure materne dei due protagonisti che Susan Sarandon e Natalie Portman incarnano, ciascuna a suo modo, ma con la medesima carica empatica, ben disegnando quell’equilibrio tra gelosia bisbetica e sacrificio angelicale con cui l’universo gay è solito rappresentarle. Il largo uso della musica popolare, da Stand by me, che cadenza il ralenti in cui madre e figlio si ritrovano sotto una pioggia battente a Bittersweet Symphony, che suggella il rispetto conquistato,lascia trapelare una possibile vena autoironica. Se non fosse involontario lo slittamento da indulgenza a ironia potrebbe salvare il doppio Dolan nascosto in The Death and Life of John F. Donovan.
Tra le protagoniste,
Natalie Portman e Susan Sarandon.
Tagliata la parte di Jessica Chastain