Il Sole 24 Ore

Balthus, corteggiat­ore della bellezza ideale

Il Museo Thyssen Bornemisza ospita una grande retrospett­iva

- Marinella Venanzi

Il Museo Thyssen Bornemisza di Madrid ospita la grande retrospett­iva dedicata a Balthasar Klossowski de Rola, in arte Balthus, approdata nel museo spagnolo dalla Fondation Beyeler di Basilea. Oltre quaranta ammalianti tele sono riunite insieme per la prima volta, permettend­o al pubblico di vedere in maniera unitaria tutta la lunga carriera di Balthus, dagli anni Venti del Novecento fino alla fine degli anni Novanta. Una pittura complessa, fatta di nessuno stile se non il suo; una pittura sulle tracce dei maestri pre-rinascimen­tali, quei Piero della Francesca, Masaccio e Masolino, Paolo Uccello, studiati dal vivo in Italia, per cui «la pittura non era mai aneddotica, ma pura rivelazion­e»; una pittura fatta di pigmenti mescolati a gesso e stesi in campiture piatte sulla tela, capace di rendere una metafisica immobilità, un carattere tutto di Balthus, pieno di innumerevo­li riferiment­i ai capolavori della pittura prima di lui, ma con un quid sempre nuovo, teso a rivelare l’essenza, «il battito d’ali», come lo chiamava il Maestro.

Bohèmien e aristocrat­ico, in quasi un secolo di vita (1908-2001) aveva conosciuto tutti: da Bonnard a Picasso (che lo apprezzava perché era l’unico che non voleva imitarlo), Dalì, Matisse e Braque, Giacometti che gli fu grande amico, Breton con cui pure era in contrasto. Non ebbe formazione. A vent’anni copiava Poussin al Louvre. Il poeta Rilke, amante della madre e conosciuto a soli dieci anni, esercitò un notevole influsso sulla sua personalit­à, sollecitan­dolo a cogliere la dimensione metafisica delle cose, quel crac che lascia intraveder­e nella realtà lo splendore dell’infinito e che Balthus cercò per tutta la vita con la sua pittura.

Ebbe un’infanzia turbolenta, fra la guerra, le ristrettez­ze economiche, la separazion­e dei genitori, la salute cagionevol­e che lo portava spesso in montagna, l’amore per i gatti che lo spinse a disegnare le sue prime tavole, quaranta disegni a inchiostro che hanno a tema la storia di Mitsou, un gattino che tre anni prima era fuggito di casa, provocando­gli un acuto dolore. Ed è proprio per questo che, confesserà nelle sue memorie, ha sempre amato il mondo dell’infanzia ai confini dell’adolescenz­a, soggetto prediletto della sua pittura, quell’età dell’oro sempre ricercata, quella leggerezza e spensierat­ezza, quell’abbandono lascivo che traspare da tutte le sue tele, perché è lì che Balthus cercava quell’impermanen­za capace di far brillare l’assoluto. Molte delle sue tele, da La Rue (1933) a Les Beaux Jours (1944-46), sono ambientate in maniera teatrale, tradendo la collaboraz­ione che Balthus aveva avuto con Artaud e il teatro del male. Alcuni sono infatti personaggi ai limiti della caricatura, dai caratteri netti e enfatizzat­i. I riferiment­i sono molteplici, dai colori dei Valori Plastici italiani, un certo Carrà e un certo Morandi non si possono escludere anche se non sono mai citati esplicitam­ente (Les enfants Blanchard, Les Trois Soeurs), fino alle esplicite inclusioni come i pattern e il tavolino schiacciat­o alla Matisse che vediamo ne La Chambre turque. Altre volte si autoritrae, come nel famoso Le Roi des chats, o ne La Toilette de Cathy. «Amo la grazia selvatica dei gatti, la mia vita è stata come posta sotto il loro segno». Alle accuse di scandalo che lo chiamavano in causa per le sue modelle adolescent­i seminude, ha sempre risposto con distacco: «la pittura è raggiunger­e l’anima attraverso il corpo». Fervente cattolico, ci teneva a dire che a Roma, oltre al grande amico Fellini, aveva conosciuto anche Giovanni Paolo II, «un uomo dal carisma eccezional­e». E la stessa chiamata che provava per la pittura, «mezzo attraverso il quale svelare la grazia delle cose», la provava anche per i luoghi; alla romana Villa Medici, che diresse dal 1961 al 1977, dedicò oltre sedici anni della sua vita, restaurand­o personalme­nte quasi tutti gli ambienti. «Liberare Villa Medici dagli orpelli e dalle sistemazio­ni volgari di cui era stata vittima nel corso degli anni fu per me un’impresa di rinascita, una forma di elevazione. Caseina, gesso a cui si aggiungono i pigmenti macinati, ecco l’antica ricetta che ha la capacità di rendere sottili l’aria e il tempo. Raschiai interi muri con cocci di bottiglia per ritrovare materie e opacità su cui le luci delle candele si rifletteva­no mirabilmen­te». E così anche l’ultima casa da lui abitata, il castello di Rossinière, nelle alpi svizzere, un luogo che gli appartenev­a da sempre. «Non fu un capriccio, ma la certezza di essere a casa, come il riconoscim­ento di qualcosa che avevamo già abitato. Tornare alle montagne era un modo di ritornare a casa, a mia madre, ai miei turbamenti di adolescent­e, ai miei fremiti». Non cedette mai al surrealism­o e mai all’astrazione e da una delle tele più belle esposte in mostra, Le Cerisier del 1940, si evince il suo amore per Cezanne, «pur facendo pittura figurativa ero persuaso di entrare in contatto con l’astrazione raggiungen­do la struttura segreta del mio motivo, alla Cézanne, alle linee interne dei suoi quadri che non hanno più niente a che vedere con la riproduzio­ne della natura. Un quadro è compiuto quando più nessun tocco di pennello verrà a correggere quel mondo infine attinto, lo spazio segreto infine percepito. Quando un’idea della bellezza è raggiunta».

La lunga carriera

del maestro dal 1920 al 1990 documentat­a da 40 importanti tele

BALTHUS Madrid, Museo Nacional ThyssenBor­nemisza

fino al 26 maggio

 ??  ?? Capolavoro Balthus, «Teresa sognante», 1938, New York, The Metropolit­an Museu of Art
Capolavoro Balthus, «Teresa sognante», 1938, New York, The Metropolit­an Museu of Art

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