Scarno e magnetico Orfeo tra i fantasmi in cerca di Euridice
Èin assoluto la regia più nuda di Carsen, fatta solo di roccia sbriciolata e luci, come di una storia raccolta su un’isola della Grecia, in un relitto di Mediterraneo, sciolto da tutti, abbandonato. Ed è la famosa opera della riforma, firmata Christoph Willibald Gluck nel 1762, a Vienna, dalla quale tutto il teatro d’opera moderno, ossia mozartiano, avrebbe avuto inizio. Tuttavia non certo popolare o immediata: Orfeo ed Euridice è un bassorilievo, con tre cantanti (di fatto uno solo) e coroorchestra nel ruolo di commentatori, a numeri chiusi, per brevi quadri emotivi in successione.
Eppure nonostante le oggettive condizioni di titolo di nicchia, di spettacolo per iniziati, condito di vocalità per raffinati cultori – col ruolo centrale affidato a un controtenore, il giovane eroico Carlo Vistoli - all’Opera di Roma riescono a far diventare la prima di Orfeo un avvenimento imperdibile. Dove il teatro è casa, accogliente, dove incontri in successione la Bartoli, Benigni e Gatti, dove il sindaco della Capitale è presente (e non è l’inaugurazione) e sta seduta in platea in mezzo al pubblico. Il tutto dura un’ora e mezza, senza intervallo, scandito in tableaux, a scena fissa di Tobias Hoheisel. Le aperture bassoalto del sipario nero esaltano la centralità del corpo o dei corpi, modellati esclusivamente dalle luci, che firma lo stesso Carsen, con Peter Van Praet.
Sono loro, declinate con maestria assoluta, moderne, ma anche molto debitrici del teatro di Strehler, a fissare i gesti individuali, le figurazioni d’assieme, in un continuo esaltare il disegno del cerchio, simbolo di una storia che sembra continuamente ruotare su se stessa: Euridice morta, Orfeo la riporta in vita, Euridice muore. Mai come in questa edizione il lieto fine sembra posticcio, cortesemente consolatorio. Carsen sta al gioco, e inventa un girotondo per il Coro, con i tre solisti issati in trionfo sulle spalle. Come una festa di paese. Mettendo in contrasto il mondo semplice, tranquillo dell’al-di-qua, con quello invece assai inquieto dell’aldi-là: corpi involti in sudari, a terra, simili a pietre che man mano prendono vita, si alzano a turno, alzano verso l’alto le braccia, in suggestiva metamorfosi, modello Ovidio o incubo dell’Alfieri.
Ai fantasmi che sembrano levarsi da sarcofagi, nell’incontro visionario di Orfeo con le Furie infernali, segue l’incontro umanissimo con Euridice. Qui non è tanto il non guardarsi a segnare il crescendo di ira femminile e disperazione maschile, quanto il non toccarsi: lui finirà rannicchiato a terra, in posizione fetale, mentre lei per metà è già tornata nella tomba, nella fessura di passaggio tra i due mondi. Lo spettacolo, magnetico, in coproduzione con Parigi, ChampsElysées, Versailles e Canadian Opera, si specchia in una esecuzione dove punte di diamante sono la voce estremamente naturale del controtenore Vistoli, capace di espressività e morbidezze, a testimoniare il nuovo corso di questo costruito registro vocale, e il Coro di Roberto Gabbiani, dagli impasti cinerei, ricchi di ombre, di grande malinconia.
Inappuntabili cantano anche Mariangela Sicilia e Emöke Baráth, timbricamente vicine, maliziosamente vestite e acconciate identiche nella conclusione. Gianluca Capuano, con brillanti polsini rossi che sbucano dalla giacca, concerta con passo spedito l’Orchestra, in uno stile ibridato tra prassi antica e non. Forse un po’ squadrato, forse senza troppe sfumature, restituisce tuttavia un buon assieme tra buca e palcoscenico. E per un’opera che a Roma non si dava dal 1968 - allora con pepli e cetre obbligatorie - non solo è un grande successo, ma un confortante esempio di teatro vivo. ORFEO ED EURIDICE
di Gluck direttore Gianluca Capuano, regia di Robert Carsen; Roma, Teatro dell’Opera, fino al 22 marzo