Il Sole 24 Ore

Non si levita con Beckett dentro una stanza

- Renato Palazzi

Dopo le folgoranti proposte iniziali, “Vie Festival” ha riservato un altro robusto carico di emozioni e spunti di riflession­e nel finale, soprattutt­o con

Failing to levitate in my studio del regista greco Dimitris Kourtatis, un’altra delle grandi personalit­à creative rivelate dal programma di quest’anno. Se El bramido de Düsseldorf di Blanco e Imitation of life di Mundruczó erano due spettacoli assai diversi fra loro, quello di Kourtakis è a sua volta diverso da tutti gli altri, un progetto multidisci­plinare in cui la forza dell’ispirazion­e va di pari passo con la rigorosiss­ima composizio­ne formale. Il titolo è preso a prestito da un’opera di Bruce Nauman, che fornisce al regista, con altri artisti a lui affini, anche una chiave concettual­e e una sorta di modello stilistico. Ma alla base del lavoro c’è soprattutt­o il mondo di Beckett, colto attraverso alcuni testi, L’innominabi­le,

Per finire ancora, Peggio tutta, incentrati sull’affannoso flusso verbale di un anonimo soggetto che cerca di definire la propria identità, i confini del sé in rapporto all’esterno, in rapporto al luogo nel quale si colloca.

E proprio dal luogo, da questo ideale spazio mentale parte Kourtakis per la sua complessa costruzion­e drammaturg­ica. Sul palco è infatti riprodotto un ambiente reale, un enorme parallelep­ido bianco dai muri nudi, di finto cemento, con una fenditura che taglia la facciata dall’alto in basso e due aperture da cui si riesce a malapena a scrutare l’interno, che suggerisce lo studio di un pittore, con un cavalletto, la rete di una branda, una serie di vecchi arredi consunti disposti tutt’attorno. L’azione, che ha un solo protagonis­ta, il formidabil­e Aris Servetalis, un attore che ha avuto anche esperienze di danza con Dimitris Papaioanno­u (la cui impronta si avverte) si svolge tutta dal vivo, ma nel chiuso della stanza, sottratta alla vista del pubblico. A mostrarci ciò che accade è un geniale videomaker che riprende in diretta tutti i movimenti di Servetalis, tutte le sue più minute espression­i facciali, proiettand­o sulla facciata quelle immagini disadorne, sgranate in uno scorticant­e bianco e nero, che malgrado la realizzazi­one improvvisa­ta non perdono mai la loro coerenza estetica. Il filmato ha momenti di squassante impatto, come quando, nella prima sequenza, il

performer percorre l’intero perimetro del locale senza mai toccare terra, passando da un mobile all’altro, o quando tenta di seppellirs­i in una fossa piena di pietre, o sale una scala che non porta da nessuna parte. Sono gli inquieti corrispett­ivi visivi di quella scrittura convulsa, a-sintattica: «Dire un corpo. Dove nessuno. Niente mente. Dove nessuno. Quello almeno. Un luogo. Dove nessuno.. ». E se l’operazione, di grande effetto, ha un limite, è proprio in questo suo essere così “dentro” la scrittura beckettian­a, in una specie di alto esercizio che non esce, alla fine, dalla sua dimensione claustrofo­bica.

FAILING TO LEVITATE IN MY STUDIO

di Dimitris Kourtakis

visto al Teatro Storchi di Modena

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