Non si levita con Beckett dentro una stanza
Dopo le folgoranti proposte iniziali, “Vie Festival” ha riservato un altro robusto carico di emozioni e spunti di riflessione nel finale, soprattutto con
Failing to levitate in my studio del regista greco Dimitris Kourtatis, un’altra delle grandi personalità creative rivelate dal programma di quest’anno. Se El bramido de Düsseldorf di Blanco e Imitation of life di Mundruczó erano due spettacoli assai diversi fra loro, quello di Kourtakis è a sua volta diverso da tutti gli altri, un progetto multidisciplinare in cui la forza dell’ispirazione va di pari passo con la rigorosissima composizione formale. Il titolo è preso a prestito da un’opera di Bruce Nauman, che fornisce al regista, con altri artisti a lui affini, anche una chiave concettuale e una sorta di modello stilistico. Ma alla base del lavoro c’è soprattutto il mondo di Beckett, colto attraverso alcuni testi, L’innominabile,
Per finire ancora, Peggio tutta, incentrati sull’affannoso flusso verbale di un anonimo soggetto che cerca di definire la propria identità, i confini del sé in rapporto all’esterno, in rapporto al luogo nel quale si colloca.
E proprio dal luogo, da questo ideale spazio mentale parte Kourtakis per la sua complessa costruzione drammaturgica. Sul palco è infatti riprodotto un ambiente reale, un enorme parallelepido bianco dai muri nudi, di finto cemento, con una fenditura che taglia la facciata dall’alto in basso e due aperture da cui si riesce a malapena a scrutare l’interno, che suggerisce lo studio di un pittore, con un cavalletto, la rete di una branda, una serie di vecchi arredi consunti disposti tutt’attorno. L’azione, che ha un solo protagonista, il formidabile Aris Servetalis, un attore che ha avuto anche esperienze di danza con Dimitris Papaioannou (la cui impronta si avverte) si svolge tutta dal vivo, ma nel chiuso della stanza, sottratta alla vista del pubblico. A mostrarci ciò che accade è un geniale videomaker che riprende in diretta tutti i movimenti di Servetalis, tutte le sue più minute espressioni facciali, proiettando sulla facciata quelle immagini disadorne, sgranate in uno scorticante bianco e nero, che malgrado la realizzazione improvvisata non perdono mai la loro coerenza estetica. Il filmato ha momenti di squassante impatto, come quando, nella prima sequenza, il
performer percorre l’intero perimetro del locale senza mai toccare terra, passando da un mobile all’altro, o quando tenta di seppellirsi in una fossa piena di pietre, o sale una scala che non porta da nessuna parte. Sono gli inquieti corrispettivi visivi di quella scrittura convulsa, a-sintattica: «Dire un corpo. Dove nessuno. Niente mente. Dove nessuno. Quello almeno. Un luogo. Dove nessuno.. ». E se l’operazione, di grande effetto, ha un limite, è proprio in questo suo essere così “dentro” la scrittura beckettiana, in una specie di alto esercizio che non esce, alla fine, dalla sua dimensione claustrofobica.
FAILING TO LEVITATE IN MY STUDIO
di Dimitris Kourtakis
visto al Teatro Storchi di Modena