Il fascino del kimono con voglia d’Occidente
Non mi stanco di consigliare un libro che, per me, è, oltre che un capolavoro letterario, un vero e proprio saggio di storia culturale. Non solo saga famigliare, ma uno spaccato su un mondo e una tendenza che è stata tra le più dense di conseguenze nell’arte occidentale: la fascinazione del Giappone. Il libro, naturalmente, è Un’eredità di
avorio e ambra (longseller di Bollati Boringhieri) del ceramista e scrittore inglese Edmund De Waal: in quel caso l’autore andava a ritroso e a ritrovo di una collezione di netsuke (che ho avuto occasione di vedere diverse volte), i piccoli ciondoli da veste intagliati, contrappesi in osso, di pregevole fattura, per le cinture, la cui proprietà, nella sua famiglia, serviva a connotare una storia fatta di arte, affari, affetti e legami, uomini e donne speciali.
È la stessa cosa che capita, ma al contrario, guardano una bella mostra a Gorizia, dove il locale Museo della Moda e delle Arti Applicate con il Servizio Musei e Archivi Storici della Regione Friuli Venezia Giulia, ha proposto (e con successo: la mostra sarebbe dovuta terminare oggi, ma è invece prorogata fino al 5 maggio) un’esposizione dedicata ai kimono, cioè l’elemento principe, o quanto meno il più noto, dell’intero universo vestiario giapponese. Ma attenzione: non si tratta di kimono qualsiasi – che già comunque, di per sé, meritano sempre, eccome, una mostra –, ma di vesti prodotte in Giappone tra il 1900 e gli anni Quaranta (con qualche incursione ulteriore verso la contemporaneità): la loro particolarità sta nel fatto che sono pezzi che riflettono la volontà imperiale di occidentalizzare il Paese. Insomma, la collezione Manavello – di questo si tratta –, è una formidabile occasione di riflessione, in tutti i sensi: non dunque il «giapponismo», cioè l’influenza del Giappone sulla cultura occidentale (alla De Waal), ma proprio il suo contrario: cioè, come recita l’efficace titolo dell’esposizione, l’«Occidentalismo» (a cura di Raffaella Sgubi, con Lydia Manavello e Roberta Orsi Landini).
Storia pochissimo studiata, dunque, eppure molto evidente in questi 40 pezzi: ai motivi tradizionali si affiancano disegni coloratissimi che richiamano, in modo puntuale, il Cubismo, il Futurismo e le altre correnti artistiche europee. O riflettono il momento storico: tra gli altri pezzi, per esempio, c’è anche un singolare kimono che celebra il patto tripartito Roma-Berlino-Tokyo del 1940: la bandiera italiana è seminascosta dentro le cuciture mentre il Sol Levante e la svastica campeggiano ovunque.
Ma, a parte, questa piccola sottigliezza “storiografica” a sorprendere, guardano i kimono in mostra (e le loro ottime riproduzione nel bel catalogo stampato da Antiga) è proprio la qualità pittorica che veniva trasferita dai designer sul tessuto, utilizzato alla stregua di una superficie per dipingere. I motivi geometrici, le decorazioni a mano, con bellissimi motivi naturalistici, i pattern che richiamano in maniera esatta le tendenze artistiche coeve. Ecco, per esempio, la piuma, che trova corrispondenza nella Wiener Werkstatte, ecco i motivi della melagrana, che uniscono una linea che va da Morris a Fortuny fino alla «Gazette du bon ton» (1913) e si spinge nel Sol Levante. E per finire cito un sovrakimono da uomo (haori) la cui fodera riporta motivi navali. Il manifesto di Cassandre del «Normandie», o le pubblicità delle linee crocieristiche Cosulich di Trieste sono riferimenti immediati suggestivi. Il cerchio qui si chiude: avercene mostre così.