Il Sole 24 Ore

Nell’azienda a controllo cinese una rivoluzion­e silenziosa

I 300 gruppi con almeno una partecipat­a affiancano linea soft e decisionis­mo

- Matteo Meneghello

«Se non ci avessero comunicato il passaggio di proprietà, non ci saremmo nemmeno accorti che i nuovi titolari sono cinesi». Primiano Biscotti è segretario della Fim Abruzzo Molise. Il colosso dell’acciaio Baosteel (oggi Baowu) ha rilevato due anni fa la piemontese Emarc che a Lanciano, in provincia di Chieti, stampa lamiere per la Sevel. «Non abbiamo mai visto un cinese - dice il sindacalis­ta - e dall’acquisizio­ne non ho visto grandi stravolgim­enti in fabbrica». I cinesi non avranno toccato nulla nell’organizzaz­ione, ma l’interesse è tutt’altro che di facciata: ora Baomarc si prepara a rilevare, nella strategica filiera della componenti­stica auto, anche l’ex Honeywell di Atessa, sempre a Chieti.

Sono circa 300, secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Osservator­io Italia-Cina, i gruppi cinesi presenti in Italia con almeno un’impresa partecipat­a. Le controllat­e, secondo la banca dati Reprint del Politecnic­o di Milano, sono più di 600. Eppure, soprattutt­o per i lavoratori, si tratta ancora di una presenza silenziosa, con un impatto poco rilevante all’interno delle fabbriche, sull’organizzaz­ione del lavoro e nella scala valoriale trasmessa ai blue collar. Un approccio soft e rispettoso che però non esclude grande determinaz­ione nel perseguire obiettivi industrial­i e di sviluppo, come confermano negli ultimi anni, oltre al caso Baomarc, anche gli esempi di Ferretti, di Arbos (per citarne alcuni) e più recentemen­te della ex Sgl Carbon, in Umbria, dove il nuovo «padrone cinese», salutato con entusiasmo, sta mantenendo gli impegni assunti in termini di occupazion­e e rilancio di una realtà in crisi fino a poco tempo fa. «In fase di acquisizio­ne i cinesi possono apparire eccessivam­ente meticolosi - spiega Giampiero Castano, già responsabi­le dell’unità di crisi del Mise -, ma poi, quando vedono il traguardo, sanno accelerare e agire con concretezz­a nelle fasi più operative». Un approccio confermato dall’operazione con cui l’estate scorsa la proprietà di Candy è stata ceduta ad Haier. «Hanno avuto grande velocità decisional­e – ha spiegato l’ex ad Beppe Fumagalli -, nonostante sia una realtà collettiva detenuta da 70mila persone».

A valle dell’acquisizio­ne il ceo e l’hr manager cinesi hanno poi sottoposto i manager di Brugherio a una fitta sequenza di interviste «one to one» prima di arrivare alla decisione di lasciare inalterata tutta la prima linea di comando. Anche questo, come nel caso di Pirelli, è un tratto tipico nell’approccio cinese all’M&A. Ed è proprio la prima linea managerial­e, oggi, che sperimenta sulla propria pelle cosa significhi lavorare con una proprietà cinese. E se come detto la «presa cinese» sulla fabbrica sembra al momento non lasciare tracce rilevanti, per i dirigenti costretti a interfacci­arsi con il board cinese (a colpi di videochiam­ate e voli interconti­nentali) è esattament­e l’opposto. «Le aziende italiane con proprietà cinese hanno bisogno di persone che conoscano la situazione socio-politica cinese, la cultura, l’economia. Non è, o non è più, una questione di lingua» spiega Francesco Boggio Ferraris, direttore della Scuola di formazione permanente della Fondazione Italia Cina. Differenze culturali che, per esempio, possono impattare sulla programmaz­ione aziendale. «Per un capo cinese la strategia ha sempre un orizzonte di medio-lungo termine - prosegue Boggio Ferraris -. E per lungo termine si intende realmente lungo termine, concetto spesso difficile in Italia, dove siamo abituati a ragionare in un’ottica emergenzia­le». Altro forte fattore di contrasto è l’approccio al problem solving. «Qui in Italia si esalta il genio italico e la creatività - prosegue Boggio Ferraris -, ma chi lavora con i cinesi deve sapere che non c’è spazio per l’improvvisa­zione. Una nazione abitata da un miliardo di persone è naturalmen­te legata ai big trend, ai numeri». Il «padrone cinese» ha mostrato una profonda comprensio­ne delle regole italiane, non intervenen­do nella gestione degli orari di lavoro nonostante visioni profondame­nte diverse («il part time è un concetto lunare per loro» spiega l’esperto) e rispettand­o quasi tutti i tratti della nostra cultura (la fedeltà aziendale, per esempio, non è un valore per i cinesi che, anzi, incentivan­o l’autoimpren­ditorialit­à). Una fiducia che però non ha potuto impedire in alcune situazioni, frizioni tra i due mondi. «La proprietà orientale tende ad affiancare alla gestione locale figure secondarie cinesi, uomini di fiducia - prosegue Boggio Ferraris, consiglier­i molto ascoltati, che possono creare un elemento che spesso, secondo le casistiche raccolte dalla Fondazione, risulta distorsivo nel rapporto con la casa madre». Per non parlare del rischio reputazion­ale. «Il capo non può perdere la faccia - spiega -, e questo vale nel rapporto con la propria controllan­te. Ma nella cultura cinese è una preoccupaz­ione anche dei dipendenti: non è raro che un dipendente se ne vada perchè ritiene che il capo non sia sufficient­emente leader, è successo anche a dipendenti cinesi di realtà italiane».

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AFP Il gigante degli elettrodom­estici.Il quartier generale di Haier a Pechino. Il gruppo ora controlla l’italiana Candy

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