Il Sole 24 Ore

Blogger colpevole in concorso con il diffamator­e

La Cassazione: non è reato a mezzo stampa e non c’è responsabi­lità omissiva

- Alessandro Galimberti

La responsabi­lità del blogger per i commenti diffamator­i postati da utenti della rete - e non rimossi nonostante la segnalazio­ne - è di natura concorsual­e. La Corte di Cassazione - sentenza 12546/19 depositata ieri - fissa i presuppost­i di imputabili­tà dei gestori di siti/diari on line (blog, appunto), nel solco della giurisprud­enza italiana ed europea maturata sul punto negli ultimi anni.

La Quinta penale ha respinto il ricorso del gestore di un blog siciliano condannato per diffamazio­ne aggravata (dal «mezzo di pubblicità», comma 3 dell’articolo 595 del Codice penale), ripercorre­ndo le tappe dell’imputabili­tà per i reati commessi in rete. La Corte ha innanzitut­to escluso che la responsabi­lità del blogger per il fatto altrui sia assimilabi­le a quella del direttore di testate giornalist­iche (manca sostanzial­mente il requisito della profession­alità dell’attività svolta, Sezioni Unite 31022/15), ma ha anche levato dal campo per gli stessi motivi l’ipotesi di culpa in vigilando (articolo 57 del codice penale). Se da un lato ciò toglie le garanzie costituzio­nali sul mezzo virtuale - non essendo protetto dall’articolo 21 della Costituzio­ne in materia di sequestro, per esempio - dall’altro rende più difficile l’inquadrame­nto della responsabi­lità del blogger, che non è direttore ma non ha nemmeno una posizione di garanzia in senso tecnico-giuridico. Quest’ultima circostanz­a non permette di applicargl­i neppure la responsabi­lità commissiva per omissione (articolo 40 capoverso del codice penale), non avendo il blogger alcun dovere giuridico di impedire l’evento lesivo. E poichè la diffamazio­ne è un reato istantaneo - che si consuma cioè nel momento della divulgazio­ne della notizia lesiva dell’altrui reputazion­e - secondo la Cassazione l’unico modo di uscirne è di contestare al blogger “inerte” nella rimozione dei commenti insultanti una “riappropri­azione” della condotta diffamator­ia altrui, a titolo pertanto concorsual­e. In sostanza, scrive la Quinta, siamo di fronte a una «pluralità di reati integrati dalla ripetuta trasmissio­ne del dato denigrator­io».

A monte di questa decisione, il relatore ripercorre l’inquadrame­nto della figura dell’Internet service provider/fornitore dei servizi di rete (mere conduit) non responsabi­le dei contenuti forniti fino all’avvenuta consapevol­ezza dell’illecito che si sta consumando attraverso il servizio digitale. Interessan­te il passaggio sul caching (memorizzaz­ione automatica dei dati) che rimane neutrale solo se «non interferis­ce con le informazio­ni memorizzat­e». Pare di leggere qui la linea di demarcazio­ne con le più moderne (rispetto ai blog) piattaform­e di social networking.

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