Dal lavoro ai divorzi, quando il selfie è decisivo
Finire nei guai per un selfie. Il gesto, apparentemente innocuo, di autoscattarsi una fotografia finisce nelle aule dei tribunali. Sotto le lenti dei giudici le distrazioni al lavoro, i tradimenti e anche i finti matrimoni per ottenere il permesso di soggiorno. La giurisprudenza considera i selfie come prove che possono entrare nei processi a vario titolo. Lo sa bene il lavoratore di Milano, licenziato per essersi scattato due selfie con le colleghe durante l’orario di lavoro. L’uomo aveva utilizzato il tablet destinato alla vendita e tanto era bastato per far scattare il licenziamento per giusta causa. Gli autoscatti scambiati su WhatsApp possono entrare anche nelle sentenze di separazione tra coniugi. Come è successo a un uomo di 43 anni di Genova che aveva scambiato selfie con l’amante in una chat di gruppo. La moglie ha prodotto la foto in giudizio come prova documentale dell’adulterio. La mancanza di selfie del viaggio di nozze e della vita in comune è invece costato il permesso di soggiorno a una donna della Repubblica Dominicana, che l’aveva chiesto sostenendo di aver sposato un cittadino italiano. Ma il giudice l’ha negato, ritenendo il matrimonio contratto preordinato a consentirle l’ingresso in Italia.