La liquidazione non aspetta la chiusura di tutti i processi
Se l’attivo è stato ripartito la procedura si conclude nonostante le pendenze
Il nuovo Codice della crisi conferma la regola secondo la quale, nell’ipotesi di compiuta ripartizione dell’attivo, la chiusura della procedura non è impedita dalla pendenza di uno o più giudizi, di qualunque natura siano (di cognizione o esecutivi), che vedano coinvolto il curatore come attore o come convenuto. Questa regola era stata già introdotta nella legge fallimentare dal Dl 83/2015, ed era stata giustamente considerata una grande novità allora, così come va considerato degno di nota oggi il fatto che il nuovo Codice della crisi la confermi e la rinnovi, perché si tratta di una regola opposta a quella che aveva disciplinato la chiusura del fallimento nei settant’anni precedenti.
Nella legge fallimentare originaria, infatti, la durata del fallimento era per definizione vincolata a quella dei giudizi nei quali fosse presente il curatore; e solo nel 2015 questo vincolo è stato sciolto, quantomeno in relazione al caso della chiusura per compiuta ripartizione dell’attivo. La durata dei fallimenti, in tale ipotesi, non dipende più da quella dei giudizi promossi dal curatore o nei suoi confronti (i più tipici dei quali sono quelli relativi al recupero dell’attivo); con la conseguenza che il fallimento può chiudersi anche quando tali giudizi fossero ancora in corso, senza attenderne l’esito. E tale previsione viene ora ribadita dall’articolo 234 del Codice della Crisi, secondo il quale la chiusura della procedura nel caso di compiuta ripartizione finale dell’attivo «non è impedita dalla pendenza di giudizi o procedimenti esecutivi, rispetto ai quali il curatore mantiene la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell’articolo 143».
Tutto ciò significa che anche la liquidazione giudiziale potrà chiudersi, una volta compiuta la ripartizione finale dell’attivo, indipendentemente dalla possibilità che i giudizi in corso possano consentire il recupero di ulteriore attivo da ripartire o dal fatto, al contrario, che dai giudizi in corso possa derivare l’incremento del passivo. E del resto va detto che, in effetti, la massa dei creditori è nelle condizioni di rimanere indifferente rispetto all’evenienza della prosecuzione dei giudizi, per il semplice motivo che, in ipotesi di incremento del passivo, i riparti già avvenuti rimarrebbero comunque intangibili, mentre, in caso di recupero di ulteriore attivo, i creditori avrebbero a ben vedere solo da goderne.
Il problema, nel caso di incremento dell’attivo, potrebbe essere semmai quello di capire come il curatore possa continuare a svolgere la propria funzione una volta chiusa la procedura; ma a questo problema risponde l’ultimo comma dell’articolo 236, che prevede la permanenza in carica del giudice delegato al fine di gestire ogni necessità (ad esempio quella di autorizzare eventuali transazioni).
Un’ultima precisazione, forse ovvia ma doverosa: il fatto che i giudizi pendenti possano proseguire nonostante la chiusura della procedura non significa che possano anche esserne iniziati di nuovi, perché questo contrasterebbe con il principio istituzionale secondo il quale, chiusa la procedura, i creditori riacquistano il libero esercizio dei propri diritti e delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti (articolo 236, terzo comma).