L’inquietudine e le polemiche
Nobel 2018-2019. Quello di Handke è un viaggiare, un attraversare che registra con scavo quasi invisibile, perché pare fermarsi alla superficie mentre cerca radici e legàmi. Quello di Tokarczuk è canto corale dell’inquietudine
Idue Nobel assegnati giovedì scorso dagli emeriti professori svedesi sono squisitamente mitteleuropei, ma attribuiti ai rappresentanti di due generazioni e dei due sessi. Peter Handke è il prolifico autore di opere teatrali (l’indimenticabile esordio di Insulti al pubblico, oggi ancora di piena attualità, anche se forse sono maturi i tempi perché qualcuno scriva anche degli “insulti ai teatranti”, vista la somiglianza tra palco e platea), cinematografiche (regie su suoi testi, sceneggiature per altri e soprattutto per Wenders, di cui ha enormemente contribuito al
trionfo di Il cielo sopra Berlino, che è forse il più prevedibile tra i suoi film), e romanzi, diari, saggi interventi, di forme e linguaggi contigui. Ci si stupì a suo tempo dell’apparizione di una generazione post-68 che, voltando le spalle soprattutto a Brecht e ad Adorno (che il Nobel non l’hanno avuto, come non l’hanno avuto, per dire, Tolstoj e Bulgakov, Woolf e Greene, Borges e Calvino, Lu Hsun e Tanizaki, Kafka e Walser, Bernhard e Sebald, Sciascia e Calvino, Morante e Ortese eccetera, mentre l’hanno avuto molti mediani finiti presto nell’ombra), si riscoprì nuovamente romantica, afflitta dalla sconfitta delle speranze, dalle delusioni dei miracoli economici.
Prima di Handke hanno avuto il Nobel alcuni tedeschi (Sachs, Böll, Grass) che la guerra l’hanno vissuta e sofferta e che con la Storia hanno dovuto fare drammaticamente i conti. E dei nuovi “romantici” cresciuti sotto Adenauer – Handke e Wenders, Her
zog e Kluge... - fu Fassbinder a vivere
il collegamento più forte con i mali del mondo, con Storia e Società, che si concluse per lui tragicamente. Più sentimentale Wenders, più irruente Herzog, è Kluge il regista e scrittore forse più vicino al tedesco-austriaco Handke, ma meno sovrabbondante,
più meditato. Quello ad Handke è in
ogni caso un Nobel ben meritato (per quanto i Nobel contino ancora) perché pochi come lui hanno saputo registrare e testimoniare con la scrittura la difficoltà di stare nel mondo, nel mondo della di/speranza, da parte di una generazione figlia della sconfitta forse definitiva dell’umano e di un cambiamento nelle regole di un’umana solidarietà.
Handke sembra essersi aggrappato all’umano residuale con un metodo e un linguaggio mai gelidi, sempre in qualche modo sofferti ma accettando necessariamente un distacco: la precisione dello sguardo e la cautela del giudizio. Il suo libro più bello è forse, con Prima del calcio di rigore e con La donna mancina, che ci turbarono e ce lo fecero amare, quello dedicato a una madre suicida, Infelicità senza desideri. È da quel dolore, su quelle constatazioni e su quelle interrogazioni che, cercando una oggettività e distanza tuttavia caute, delicate, Handke ha affrontato il dopo, l’ora, e continua instancabilmente a volerlo affrontare. Viaggiando e attraversando, osservando e registrando con uno scavo quasi invisibile, ché sembra fermarsi alla superficie mentre, senza gridarlo, cerca radici e legami. Ha avuto la fortuna di trovare in Italia traduttori egregi come il fedele Claudio Groff, e molti diversi editori (Feltrinelli, Guanda, Garzanti) che se lo sono rimpallato, perché non è mai stato un best-seller salvo che con Infelicità... e ora Quodlibet va affrontando la traduzione di tutto il teatro. Un Nobel benvenuto, dunque, che, sia pure in modi lontani dalle nostre estroversioni, in qualche modo ci appartiene, se non altro appartiene a una generazione che è stata l’ultima ad aver tentato, fallendo miserevolmente, la “scalata al cielo”.
Diverso è il caso di Olga Tokarczuk, vissuta e formatasi altrove, in una Polonia che vanta i suoi Nobel e altri ne avrebbe meritati – ultimo assegnato quello a un’altra donna, la poetessa Szymborska, di una generazione anzi di due generazioni precedenti la sua (nacque nel 1924, mentre la Tokarczuk è del ’62). È l’erede di un altro modo di confrontarsi col reale, con Società e Storia, un modo che è poi quello delle avanguardie degli anni Trenta effervescenti e bizzarre, cui ci rimanda con i suoi vasti repertori di personaggi e di storie – concreti e reali, noti e meno noti, ma anche inventati, e anche con angeli e fantasmi – e che, sospetto, deve essersi sbalordita a suo tempo leggendo García Márquez, mentre non è probabile che abbia conosciuto quel movimento che ebbe lunga vita in Italia e che venne chiamato del “realismo magico”.
È la varietà delle storie possibili ad affascinarla, ma a partire da quelle vere e magari trascurate, dimenticate, e bensì con il gusto irrefrenabile per quelle immaginate, e però con il freno di una formazione che è anche scientifica. È stata psicoterapeuta, Olga Tokarczuk, e non ha mai nascosto la sua devozione per Jung. È proprio il nome di Jung, direi, che chiarisce e spiega la sua vocazione, il suo modo di cercare in vicende costruite per piccoli blocchi contrapposti, quasi pedine di un domino, quel che c’è di nascosto e di oltre, un legame segreto ancorché apparentemente inafferrabile con il sempre. Molto oltre, però, le tragedie della Storia, e arrancando nel mondo del mito, e dell’insolito ma anche del probabile, del nascosto e però non oscuro.
Confesso di trovare ogni tanto pesante questa voluta leggerezza, prevedibile questa imprevedibilità, perché nei suoi libri Tokarczuk sembra aver appreso ottimamente un meccanismo di cui si fa anche, in qualche modo, prigioniera. In Italia è stata scoperta da e/o, è passata per nottetempo ed è approdata a Bompiani con quello che sembra essere il suo capolavoro, quantomeno il suo romanzo più ambizioso, e pur sempre corale, I vagabondi, che accosta storie affascinanti di persone reali che hanno in comune l’irrequietezza, il nomadismo. Questa del nomadismo è per lei una qualità, un dono, un pregio, anche se oggi si chiama turismo e ha molto, ha troppo di distruttivo, di ripetizione non di scoperta, non di tolleranza. La differenza col nomadismo handkiano sta nel punto di vista, interiore il primo ed esteriore il secondo.
Tokarczuk è molto amata dalla Nobel bielorussa Svetlana Aleksievič (che viene da un mondo che confina con il polacco e gli somiglia, quantomeno quello dell’Est) che procede per strade tutte diverse, quelle del reale, del vero, del vissuto, ma che sa la fatica delle costruzioni, anche se per sé ripudia quella delle invenzioni cercando e trovando nel reale quanto basta, anzi più del necessario con i suoi dolori e con le sue tragedie. Le unisce la fiducia nella comunicazione, nella letteratura – una fiducia che siamo in tanti, oggi, forse, ad aver cessato di nutrire... Per questo, a ben vedere, ci sembra che i due Nobel abbinati quest’anno dal caso di un banale scandaletto, non siano, nonostante la vicinanza della Germania alla Polonia, ben accordati. Due generazioni diverse della cultura europea, e la seconda meno esigente, più pacificata, più diciamolo – compromessa. Ma va pur detto che oggi, nella generazione della Tokarczuk, è difficile trovare di meglio. Ché la letteratura, come tutto, va globalizzandosi e ripetendosi, omogeneizzandosi.