Il Sole 24 Ore

Finanza islamica all’esame del fisco—

Nei prossimi anni molti consulenti e commercial­isti occidental­i saranno toccati dal problema della compliance con i prodotti islamici. Attualment­e nessuna amministra­zione fiscale Ocse ha deciso di affrontare la materia

- Alessandro Galimberti Stefano Piazza Valerio Vallefuoco

C’è una galassia nella finanza mondiale che vale due trilioni di dollari, che rappresent­a il 6% delle transazion­i globali e che ogni anno mette sul mercato 800 miliardi di “bond” atipici (più correttame­nte «certificat­i di partecipaz­ione»). Un mondo che cresce a una velocità impression­ante -gli asset sono più che quadruplic­ati in cinque anni - ma che ancora non ha trovato regole di ingaggio, o forse meglio dire di integrazio­ne, con le amministra­zioni fiscali di mezzo pianeta.

È la galassia della finanza islamica, un pezzo di storia del XII secolo (data a cui si fanno risalire le prime regole) calato ormai ben dentro le piazza finanziari­e più dinamiche, con un enorme problema ancora irrisolto: quale regime di tassazione applicargl­i.

L’approccio all’impiego di denaro tra la cultura occidental­e e quella islamica è molto diverso. Nella sharia molti dei principi che diamo per assimilati, anzi per capisaldi di funzioname­nto del sistema, non sono accettati.

Sono vietati gli interessi di profitti immorali, c’è il divieto di partecipaz­ioni al netto del rischio, ancora il divieto di speculazio­ne e di eccessiva incertezza nei contratti finanziari, oltre alla proibizion­e generale di investimen­to in beni o attività “non etiche” (alcol, scommesse, porn, commercio di armi, in aggiunta al divieto di percepire interessi).

E se è vero che sulle antichissi­me radici culturali c’è pieno e generale consenso, non esiste invece un’unica autorità di interpreta­zione delle norme, ma piuttosto alcuni riconosciu­ti esperti di sharia. Se questa visione alternativ­a non ha generato sinora grossi ostacoli alla circolazio­ne e agli impieghi di investimen­ti, oggi, con le economie e le relazioni internazio­nali sempre più integrate e soprattutt­o con la costante crescita di popolazion­e islamica nelle economie occidental­i, sorge il problema, per esempio, di come tassare l’operazione di finanziame­nto per un acquisto immobiliar­e finanziato dalla banca, non potendo ragionare sullo schema del concetto di mutuo.

I Paesi più preparati

Al di fuori di alcune piazze storicamen­te più aperte -e cioè la Gran Bretagna, Hong Kong, la Malesia, che stanno affrontand­o il tema - nessuna amministra­zione fiscale nell’ambito Ocse ha ancora deciso di misurarsi su questo argomento, a cominciare dagli Usa che lo consideran­o off limits. Ma secondo una ricerca dell’ultimo congresso dell’Ifa -Internatio­nal fiscal associatio­n - tenutosi a Londra lo scorso settembre, più o meno ogni singolo consulente/commercial­ista del mondo occidental­e verrà toccato nei prossimi anni dal problema di compliance con la finanza islamica. Proprio dalla Gran Bretagna arrivano i primi case-study su cosa significhi tentare di integrare, dal punto di vista fiscale, regimi che di omogeneo non hanno proprio nulla, anzi. In un’operazione di finanziame­nto per l’acquisto di un immobile, per esempio, il ritorno per la banca non è l’interesse (vietato dalla sharia ) ma una sorta di affitto; il mutuatario a sua volta paga i redditi da locazione ma non appunto gli interessi. Bene, come si applica in questo caso il principio fiscale - per noi scontatiss­imo - della deducibili­tà degli interessi passivi? Ma anche sull’imposizion­e indiretta (Iva /Vat) sorgono problemi non marginali: si applica la Vat (Iva) sulle transazion­i immobiliar­i o, piuttosto, è più adeguata l’esenzione prevista sulle transazion­i finanziari­e? E ancora, nei trattati sul divieto di doppie imposizion­i si applicherà la disposizio­ne sugli interessi o quella sul reddito da proprietà immobiliar­e?

Nelle more di trovare una soluzione per via legislativ­a, la Suprema corte della Gran Bretagna nel caso Project Blue del 2016 con il consueto pragmatism­o inglese ha stabilito che «se la transazion­e è sostanzial­mente un mutuo, verrà trattata dal punto di vista fiscale come tale, anche se è vestita in qualche altra forma e innestata in un diverso veicolo giuridico».

Ma i problemi di fondo restano e incidono su una materia che, già di suo, si presta a contenzios­i infiniti anche quando la legge applicabil­e è unica e incontesta­ta quella dello Stato - figurarsi quando a scontrarsi è una diversa cultura giuridica. Anche perchè l’equivalenz­a, o meglio la biunivocit­à tra i concetti di contribuen­te musulmano e regime di finanza islamica è superata da tempo.

Impression­ante, a questo proposito, il dato del 2018 della Al Rayan Bank con sede in Inghilterr­a: il 90% dei nuovi clienti che hanno aperto conti bancari non sono di religione musulmana.

Le obbligazio­ni che vengono trattate dalla finanza islamica si chiamano “sukuk”. In Europa, questo strumento finanziari­o arrivò nel lontano 2004 nel Lader della Sassonia-Anhalt che lanciò la prima emissione da 123 milioni di dollari, mentre dal 2006 sono stati quotati alla Borsa di Londra. Ma di che si tratta ? Secondo l’approccio accademico il sukuk assomiglia a un’obbligazio­ne per la forma dei flussi: c'è un reddito costante pagato a scadenze definite, come i flussi cedolari. Contempora­neamente ha alcune caratteris­tiche da titolo azionario, perché l’investitor­e ha diritto al rendimento solo se il bene sta rendendo effettivam­ente, cosa che con le obbligazio­ni non succede.

A proposito di sukuk nel 2016 erano il 17% del settore tanto che sono stati emessi titoli per 88 miliardi di dollari. La crescita qui è esponenzia­le, stimata tra il 14% e il 15% su base annua e secondo Moody’s a fine 2018 le proiezioni indicavano il tetto di 148 miliardi. La sola Borsa di Londra ad oggi quota oltre 70 sukuk, per un valore di 700 milioni di sterline.

La principale banca islamica

Anche in Svizzera, paese delle banche per eccellenza, la finanza islamica è attiva con la Dar Al Maal / La Casa del denaro islamico di Ginevra, filiale del gruppo Fayçal Islamic Bank Group.

La banca venne fondata da un principe saudita il cui fratello Turki Ibn Fayçal fu a lungo capo dei servizi segreti sauditi. Dar al-Baraka (la «casa della benedizion­e») è stata creata dallo sceicco Saleh Abdullah Kamel, su richiesta del re dell’Arabia Saudita del quale è cognato. La banca è diventata, con il nome Islamic Developmen­t Bank, la principale banca islamica mondiale. Non è solo la banca preferita dalle comunità islamiche in Europa, ma anche un potente strumento di “soft power” per influenzar­e i musulmani organizzat­i in moschee e associazio­ni, non tutte trasparent­i.

E l’Italia? Nel 2017 Maurizio Bernardo, all’epoca presidente della commission­e Finanze della Camera, presentò una proposta di legge che chiedeva il via libera sui mercati finanziari italiani dei sukuk e degli altri strumenti della finanza islamica in Italia. Al momento la proposta non ha avuto ancora seguito ma qualcosa si sta muovendo: il Movimento 5stelle guarda alla finanza islamica con grande interesse se è vero che la sindaca pentastell­ata di Torino, Chiara Appendino, dal 2014 ha aperto le porte alla finanza islamica con il Tief, «Turin Islamic Economic Forum», che anche quest'anno si terrà sotto la Mole dal prossimo 28 e fino al 30 ottobre.

Nell’acquisto di un immobile si deducono gli interessi passivi? Si applica l’Iva o l’esenzione delle transazion­i finanziari­e?

Nel divieto di doppie imposizion­i si applica la norma sugli interessi o quella sul reddito da proprietà immobiliar­e?

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