Otello e Falstaff senza segreti
Lettera da New York. Una mostra alla Morgan Library segue le vicende dei due capolavori che incoronarono il percorso artistico di Verdi: manoscritti, foto, contratti, schizzi, bozzetti originali, giunti dalla Ricordi o che sono parte dell’istituzione newy
«Voi, proprio voi, mi consigliate a scrivere! Ma parliamo sul serio, per qual motivo scriverei? a cosa riescirei? e cosa ci guadagnerei io? Il risultato sarebbe ben meschino. Sentirei da capo a dirmi che non ho saputo scrivere, e che son diventato
un seguace di Wagner. Bella gloria! Dopo quasi quarant’anni di carriera finire imitatore!»
Con questa dichiarazione amara, scritta da Giuseppe Verdi nel 1878 in una lettera all’amica contessa Clara Maffei, inizia la piccola ma bellissima mostra alla splendida Morgan Library and Museum di New York – mostra dedicata alla storia della composizione degli ultimi due capolavori lirici del maestro, Otello e
Falstaff. All’epoca della lettera alla Maffei, Verdi, quasi sessantacinquenne, era uno dei musicisti più celebri (e più ricchi) d’Europa. Aveva creato opere che ancora oggi dominano i palcoscenici dei teatri lirici di tutto il mondo, ma dopo le “prime” dell’Aida (1871) e del Requiem (1874) non voleva più sentir parlare di progetti musicali. L’avanguardia europea di allora considerava Richard Wagner, coetaneo di Verdi, come il redentore della musica colta in generale e del teatro lirico nella fattispecie, mentre per i giovani il popolarissimo Verdi rappresentava uno stile già passato di moda.
Di un altro parere però era Giulio Ricordi (1840-1912), nipote di Giovanni Ricordi, fondatore della casa editrice musicale milanese G. Ricordi & Co., e figlio di Tito Ricordi, l’allora direttore della ditta. Sciur Giulio – come veniva chiamato a Milano – aveva già da giovane instaurato rapporti cordiali con Verdi, il quale almeno sin dai primi anni 50 del’800, cioè dopo il ritiro di Rossini e la morte di Bellini e Donizetti, era diventato per la famiglia Ricordi la più produttiva mucca da mungere. Oggi, la pubblicazione di un’opera lirica sembra quasi un atto caritatevole da parte di una casa editrice, ma nell’Ottocento l’opera godeva di una popolarità enorme, non solo in Italia ma anche quasi dappertutto in Europa, e quella popolarità si stava espandendo nelle Americhe – soprattutto in città come Buenos Aires e New York, dove c’era un vasto e continuo afflusso di migranti europei alla ricerca non solo di lavoro e ricchezze ma anche di divertimenti.
Tuttavia Verdi non aveva più voglia. Dal 1839, quando a ventisei anni aveva debuttato con Oberto,e fino all’Aida del 1871, per l’appunto, aveva composto ben ventiquattro opere (senza contare rifacimenti e revisioni anche molto consistenti), ma frenandosi a poco a poco: ne aveva scritte quattordici nel primo decennio, sette nel secondo, due nel terzo e nel quarto soltanto una. Aveva acquistato e continuava ad acquistare e gestire terreni e proprietà immobiliari nella sua Emilia natìa, dove viveva con la moglie, l’ex soprano Giuseppina Strepponi. Era stanco del mondo teatrale e poteva tranquillamente vivere di rendita.
Nel frattempo Casa Ricordi continuava a pubblicare opere anche di compositori più giovani – La Gioconda di Amilcare Ponchielli e il Mefistofele di Arrigo Boito, per esempio, e molte altre ormai dimenticate – e da lì a poco sciur Giulio sarebbe diventato il promotore e in un certo senso anche il mentore di un giovane lucchese che si chiamava Giacomo Puccini. La Ricordi teneva inoltre i diritti di opere perennemente popolari del primo Ottocento – opere dei menzionati Rossini, Donizetti e Bellini – e si era o si sarebbe presto assicurata i diritti italiani delle opere di Gounod, Massenet e altri stranieri prestigiosi, Wagner soprattutto, anche se i drammi musicali di quest’ultimo facevano fatica ad attecchire in Italia.
Giulio comunque non si arrendeva. Cercava l’approccio giusto per invogliare Verdi, alquanto permaloso,
a tornare sulla breccia. Allora nel 1879 propose al maestro di rivedere il Simon Boccanegra, opera che, dopo la sua “prima” alla Fenice di Venezia nel 1857, aveva stentato a prendere il volo. Siccome nel frattempo Francesco Maria Piave, il librettista del Boccanegra, era deceduto, Ricordi suggerì a Verdi come possibile collaboratore il trentasettenne Boito, ex “scapigliato” che oltre a essere compositore era anche poeta. Dopo varie vicissitudini i due si misero al lavoro; un
Boccanegra parzialmente rifatto vi
de la luce alla Scala nel 1881, e a poco a poco Verdi si lasciò convincere a scrivere un’opera nuova basata sull’Othello di Shakespeare, con l’ormai fidato Boito come collaboratore. Poi, dopo il successo strepitoso dell’Otello alla Scala nel 1887, Verdi decise di scrivere, sempre con Boito, un’altra opera shakespeariana, il Falstaff, rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1893, quando il compositore era sulla soglia degli ottant’anni. E fu il suo congedo dal teatro lirico.
La mostra alla Morgan Library – curata da Fran Barulich, direttrice del Dipartimento di manoscritti musicali e di musica stampata dell’istituzione, e di Gabriele Dotto, direttore scientifico dell’Archivio storico Ricordi, e aperta fino al 5 gennaio prossimo – si basa su manoscritti e altri oggetti pervenuti per la maggior parte dalla stessa Ricordi a Milano ma con l’aggiunta di alcuni elementi che fanno parte delle sterminate raccolte della Morgan, come per esempio esemplari rarissimi del
first folio e del second folio delle opere di Shakespeare e una lettera della Strepponi a Giulio Ricordi.
Il percorso della mostra segue le vicende dei due capolavori che incoronarono il percorso artistico di Verdi, dall’ideazione alla realizzazione e oltre: ci sono contratti (il maestro fu pagato l’equivalente di circa un milione di euro di oggi per l’Otello e teneva i diritti d’autore), schizzi, corrispondenza, manoscritti, bozzetti originali, foto dei vari protagonisti, oltre a una minidimostrazione della procedura di fine Ottocento per stampare spartiti e partiture, e altro ancora. Insomma, una goduria sia per i verdiani di stretta osservanza che per i curiosi che sanno poco dell’argomento. E, con buona pace di Verdi, «il risultato» del suo ritorno al teatro lirico fu tutt’altro che «ben meschino»!