Natura matrigna sul banco di accusa
Se fosse possibile riavvolgere il tempo e ritornare con i sensi, anche per poco, nella metà del XII secolo, oltre a non ricevere mail e telefonate, a non essere costretti a sopportare taluni ragionamenti d’oggidì, si potrebbero incontrare pensatori di rara forza. Personaggi che le storie della filosofia ormai faticano a ricordare. Per esempio, l’inglese Adelardo di Bath, che studia a Laon e Tours, viaggia in Italia, Grecia, nel mondo musulmano e traduce Euclide dall’arabo al latino, non prima di essersi occupato delle tavole astronomiche di al-Khwarizmi e dell’Introduzione all'Astrologia di Abu Ma’shar. Chiederemmo ad Adelardo se anch’egli abbia avuto la sensazione che quest'ultimo matematico e filosofo persiano – siamo nel IX secolo – indicasse le rivoluzioni orbitali dei pianeti credendo in un sistema eliocentrico. Chi gli ispirò l'idea?
Oppure, rivedendo Thierry di Chartres, sarebbe intrigante domandargli perché interpretò il libro biblico della Genesi con il Timeo di Platone. E quali ragioni spinsero la scuola cui apparteneva a identificare lo Spirito Santo con l’Anima Mundi, cara ai platonici. Forse aprirebbe il suo trattato su i sei giorni della creazione, il De sex dierum operibus, per ricordare quali procedure divine ghermirono le cose dal nulla; poi potrebbe disquisire sull’atto creativo che costrinse l’eternità ad accorgersi del tempo. Fu veramente un processo di generazione che partiva dall’unità cara ai pitagorici?
Non possiamo rispondere oggi a cuor leggero; e già qualcuno starà sorridendo per le ipotesi fatte, data l’aria che tira. L’assurdo viaggio ci è venuto in mente compulsando l’Architrenius di Giovanni di Altavilla, che in questi giorni ha la sua prima traduzione italiana, anche se risale a un anno che potrebbe essere il 1184. Con testo latino a fronte, è stato curato da Lorenzo Carlucci (insegna logica matematica) e Laura Marino per la Biblioteca medievale di Carocci. Chi sia codesto autore, anche se ebbe risonanza nei secoli – non fu amato da Petrarca ma Leopardi potrebbe aver tratto ispirazione per il Dialogo della Natura e di un islandese – è difficile a dirsi. La Marino nota che le notizie intorno a lui sono «scarsissime e avvolte da una caligine oscura» e che il suo nome è affidato a ben trenta varianti.
Il libro di Giovanni di Altavilla è un poema che tratta di un uomo soprannominato, appunto, Architrenio; né giovane né vecchio, non ha mai dedicato un giorno alla virtù. Si chiede se la responsabilità della sua condotta sia da ascriversi alla Natura, ma non riesce a rispondere. Allora intraprende un viaggio per trovare quella che consideriamo una grande Madre e per ottenere una risposta. Attraversa terre allegoriche dominate da personificazioni dei vizi dell’uomo, luoghi reali o emblematici: il primi di essi è il palazzo di Venere, il secondo è quello abitato dagli adoratori del ventre e dai seguaci di Bacco; più avanti trova il monte dell’Ambizione, il quinto è il colle della Presunzione.
Non entreremo nei dettagli di tale viaggio, ma per comprenderlo occorre indagare il rapporto tra Giovanni di Altavilla e la Scuola di Chartres (la questione è trattata alle pagg. 16-24 dalla Marino), prendere atto delle numerose innovazioni che l’opera mostra, accorgersi come questo viaggio sia forse un prototipo della Commedia di Dante.
Qui, però, il discorso si complica. Nel latino pluristilistico dell’autore si riflette qualcosa che attende di essere ancora scoperto. Aggiungiamo soltanto che Giovanni di Altavilla nel IV libro scrive che l’Ambizione ispirò i primi motivi per scatenare le guerre. Perché? Risponde: «Non sopporta alcun freno, non teme confine».