Prove tecniche di civiltà occidentale
L’Ellenismo e gli altri. Ritorna il saggio di Momigliano sull’osmosi, le fascinazioni e i contrasti tra la cultura della Grecia antica e i mondi celtico, ebreo, romano, orientale. Un crogiuolo nel quale si formò la nostra identità
Sotto la lente i nessi cruciali della prima «globalizzazione»
euro-asiatica, tra vinti e vincitori
Einaudi ripropone un classico della storiografia novecentesca italiana: Saggezza straniera di Arnaldo Momigliano. Uscito nell’80, oggi cattura anche più intensamente la nostra attenzione, in un mondo di più accese fusioni o contrasti simili a quelle cui accenna il sottotitolo L’Ellenismo e le
altre culture.
Come spiega Francesca Gazzano nel saggio introduttivo, oltre ad essere in sé un grande libro, anzi una vera pietra miliare nella storia degli studi classici, in Saggezza straniera è tratteggiato un grande affresco storicoculturale di un’epoca quale l’Ellenismo che precorre, per certi aspetti, quella “società globale” che sarebbe sorta pochi anni dopo la scomparsa del suo Autore nell’87. Analogamente a oggi in quei secoli antichi, a séguito delle conquiste di Alessandro Magno e poi della spinta difensiva o espansiva della repubblica romana, si crearono tensioni e dinamiche complesse con altri popoli circostanti o lontani, anch’essi dotati di antiche civiltà o tesi in recenti espansioni, quali gli Ebrei e gli Iranici a Est, i Celti a Nord.
Si aggiunga a tutto ciò il fascino della scrittura di Momigliano, storico vigoroso e perentorio, con la capacità di insegnare nozioni e di sollecitare riflessioni nel suo lettore accanto a sé.
Maturò in quell’epoca della civiltà mediterranea, spiega dunque Momigliano, uno scambio religioso, il pantheon greco accolse divinità straniere come i “barbari” rimodellarono le proprie sulle greche per dare loro una superiore dignità.
Parimenti s’intensificò l’interesse culturale da parte di filosofi occidentali per le dottrine a volte strane dell’Oriente, per personaggi tribali come Mosè e Abramo, e per divinità oscure come le nordiche, di popoli incivili agli occhi di un classico. Con ciò s’incoraggiò a loro volta anche il contraccambio dello sforzo di quegli altri popoli a penetrare l’Occidente. Quanto ai Romani, il Momigliano regala loro uno dei momenti più brillanti della propria bravura e ironia: «Non presero mai molto sul serio i propri rapporti intellettuali con l’Ellenismo”, entrato fra loro facilmente e rapidamente. Essi agivano da una posizione di forza rispetto a quella sparuta anche se superba popolazione, e “senza darsi troppo da fare” conservarono una precisa coscienza della propria identità e superiorità.
Così l’Ellenismo «influenza ancora il nostro atteggiamento nei confronti delle antiche civiltà»; l’uomo europeo ne è rimasto condizionato, e «il triangolo Grecia - Roma - Giudea mantiene una posizione chiave» e probabilmente la manterrà finché il cristianesimo, in cui sono presenti e fondanti tutt’e tre quelle entità, rimarrà la religione occidentale.
Della diffusione della lingua e cultura greca nelle classi elevate romane fu campione Polibio, arrivato prigioniero di guerra e migrante dal Peloponneso al momento giusto, all’apice delle glorie e delle conquiste della Repubblica. La sua amicizia con Scipione Emiliano fu spontanea, facilissima. Egli fu il primo collaborazionista e maestro di saggezza politica, di atteggiamento verso gli antichi e i nuovi sudditi della Repubblica, e le sue Storie, storie delle vicende e del mondo contemporaneo senza tante fantasie, sono perfettamente rappresentative del loro tempo, se non addirittura lo modellano. La concezione polibiana della storia è che dev’essere anch’essa universale, contenere e ordinare i fatti di tutto il mondo, qual è ora da un capo all’altro sotto il dominio e l’organizzazione di Roma, prima potenza a cui riuscì ciò che non riuscì agli asiatici, cioè di assoggettare quasi tutta la terra abitata e di «instaurare una supremazia irresistibile per i contemporanei, insuperabile per i posteri», prima potenza mondiale (così l’ellenistico Polibio sulla soglia della sua opera, che aspira ad essere anch’essa una “storia universale”).
Eppure culturalmente quella prima potenza mondiale si dibatte e cerca di non essere assorbita dalla più alta civiltà dei vicini orientali: perché frattanto e all’interno di questo organismo politico funzionavano e si adeguavano perfettamente le culture filosofiche e letterarie greca ed ebraica, la prima nel suo mirabile tramonto, la seconda contrapponendosi e serbando il suo Libro per i secoli futuri.
Se poi ci si spingeva ancora più a Oriente, un’esperienza plurisecolare di quei popoli aveva opposto non solo le loro armate e la loro politica ma anche la scienza arcana alla scienza greca. Da quando i Persiani si erano affacciati e avevano conquistato la Lidia in Asia Minore, i Greci furono coinvolti nel loro processo espansionistico, e quei fatti «devono aver assorbito la mente di ogni greco dell’Asia Minore», dice ancora in quattro parole molto belle ed efficaci Momigliano.
Costumi, atteggiamenti, idee lontane mille miglia dalle occidentali s’infiltrarono a poco a poco, o in certe epoche tumultuosamente, nel tessuto mediterraneo. I Magi bussarono alla porta e si insinuarono anche in forme indirette e con sua riluttanza sotto il razionalismo occidentale. Pitagora fu allievo di un caldeo e di là portò l’usanza di indossare pantaloni. Nella biblioteca dei Tolomei ad Alessandria si trovò di tutto, tradotto in greco; e secondo Plinio il Vecchio, il filosofo peripatetico Ermippo nel III secolo a.C. si prese la briga di commentare due milioni di versi di Zoroastro.
Ciononostante, conclude Momigliano con una punta di dignità e con un accenno, si direbbe, a una scelta di campo, «i saggi greci operarono sempre all’interno della polis, accettarono sempre la sua religione e assai raramente rifiutarono la sua moralità. E l’immagine greca della saggezza coincise con una forma elevata di virtù civiche. Isaia, Zoroastro e Buddha non avevano possibilità di riuscita».