Il Sole 24 Ore

Allegoria di una vocazione

- Salvatore Silvano Nigro

«Ho quattro anni». Comincia così il nuovo romanzo di Giuseppe Lupo, Breve storia

del mio silenzio. Con grande finezza let

teraria, in una prosa nitida e fluente, Lupo scrive un’autobiogra­fia delicatame­nte fabulosa inquietata da un «silenzio» che è trauma infantile di afasia, e poi, nel tempo, insidia persistent­e di un «male delle parole» e di una «inimicizia con il linguaggio». Il libro è anche un romanzo di formazione: un’educazione alla scrittura letteraria al di là del «silenzio»; verso la scoperta della letteratur­a in quanto risorsa di «oblio», nella quale «le immagini della memoria una volta fissate con le parole, si cancellano», come scriveva Italo Calvino. La prosa è di un’accurata e morbida lentezza. I tempi della narrazione avanzano e retrocedon­o, per procedere ulteriorme­nte. Così il racconto si stratifica, in quelle che l’autore più che stagioni chiama «ere»: essendo la vita simile a un palinsesto geologico. Il filo di ogni evento viene quindi ripreso in un altro tempo che, tornando indietro, riprende il bandolo e lo intrama. Lupo ha l’orecchio infallibil­e di un regista per l’opportunit­à delle entrate e delle uscite dei suoi personaggi, per l’apertura e la chiusura di ogni singolo episodio.

L’autore ha quattro anni. È nato ad Atella da due maestri di scuola elementare. La famigliola vive in una vecchia e scomoda casa, come tante in quel borgo lucano di tegole e ringhiere che si affacciano sulla valle: «Quando tirava vento, era difficile dormire, il tubo della stufa a kerosene fischiava, le tegole parevano sollevarsi, il tintinnio dei vetri dava tormentoai balconi ». Accanto c’ è la casa dei nonni e degli zii con i quali si comunica tramite un telefono senza fili, battendo alla parete divisoria più sottile: richiamand­osi a vicenda. Lupo è attento agli umili riti della vita quotidiana e alle cerimonie collettive. Alcuni ricordi hanno vivezza visiva e suggestion­i pittoriche: «Gennaio era il mese dei maiali sgozzati nelle masserie. Io me li ricordavo bene i giorni cruenti quando sull’aia dei nonni materni si disponevan­o gli attrezzi – corde, coltelli, mastelli, secchi, cucchiaie in legno – e interveniv­ano amici, parenti, gente esperta, chi a tirare il maiale dalla catena, chi a tenerlo per le zampe, chi a scannarlo. I grugniti si mescolavan­o agli ordini che davano i capimacell­ai e le donne si tenevano pronte con i recipienti per raccoglier­e il sangue. A lavoro compiuto, mentre insaccavan­o il salame, gli uomini arrostivan­o la carne e cominciava la festa».

Lupo registra gesti, rumori, odori: con devota minuzia e, spesso, con lieta ironia. Attorno alla casa c’è la vita del villaggio, che gode dell’attività culturale del Circolo La Torre animato dal padre dell’autore. Per il Circolo passano personalit­à illustri come Tommaso Fiore. E come Sinisgalli, «del quale rimase il mito di un ingegnere che vide uccelli gracchiare sopra le querce delle sue vigne ed ebbe il coraggio di chiamarle muse».

Il piccolo Giuseppe è al centro delle attenzioni dell’intera famiglia. Ma un giorno vede le braccia della madre stringere al petto il corpicino di un’altra creatura. È arrivata una sorellina. Il «mondo» non è più tutto di Giuseppe. Il bambino cerca di parlare. Ma «la voce rimane sepolta». Si sforza. Fa un respiro. Riprova. La nonna si spaventa e piange. È inutile. Le parole gli si fanno «nemiche». Il «male» gli si rivela come una «voragine» senza fondo. Ha inizio la storia del suo «silenzio».

Giuseppe non parla. Scruta le parole sulle labbra degli adulti, misura le pause. Si chiede «dopo quante lettere» bisogna «fermarsi». Ogni frase gli sembra «un ponte sospeso sull’abisso. L’abisso era il silenzio e le parole erano appese al filo che ci penzolava sopra. Parlare era come salire su una funivia agganciata a questo filo: ci si lascia andare nel vuoto e via con le lettere, una dietro l’altra. Io pensavo a quel che dovevo dire, prendevo fiato e partivo, poi tentennavo. Non mi sentivo pronto a compiere la traversata sull’abisso. La ruggine impediva alla funivia di correre. Mia madre si disperava, mio padre confidava nella pedagogia».

Un altro esercizio consisteva nella misurazion­e prosodica della pioggia, del subbuglio dell’acqua nella grondaia e nelle pozzangher­e. E questa metrica dell’acqua, che ha «la stessa cadenza dei tasti della macchina da scrivere», permea l’intero romanzo («la mia vita era stata un continuo cercare l’acqua, ascoltare la pioggia). Non è circoscrit­ta al «silenzio» della «preistoria» infantile, ma tornerà negli anni milanesi dell’autore quando il «silenzio» riguarderà gli stenti, le difficoltà, i fallimenti delle prime prove di scrittura letteraria: «tornava a manifestar­si l’antico male del silenzio, che adesso non era più l’incapacità di parlare, ma l’ immenso buco ne roche mi impediva di battere a macchina». A Milano, nella «città geometrica», diversa dall’ «ingar buglio» del borgo appenninic­o, dopo intense letture eva ritentativ­i, è l’ acqua dei navigli che, simbolicam­ente svegliale parole; e insieme sveglia il giovane scrittore dall’«infanzia» che si portava dentro.

Il romanzo di Lupo è, alla fine, tra le pieghe, una teoria, quasi un’allegoria della vocazione letteraria. Senza che questo nuoccia alla ricchezza narrativa dell’opera, gremita di personaggi e situazioni. Bellissime, nella loro tragicità, sono per esempio le pagine sul dolore della terra in Lucania durante il terremoto del 23 novembre del 1980. O il capitolo finale sull’addio dell’autore al proprio editore, Cesare De Michelis: a Venezia, una delle capitali storiche dell’editoria, una città d’«acqua».

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