Il Sole 24 Ore

Una rigenerazi­one dell’umanesimo

La nostra epoca conosce il delirio di fanatismi che si moltiplica­no, la follia delle illusioni che si credono razionali. Serve una coscienza per preservare la specie e il pianeta dai pericoli che incombono

- Mauro Ceruti e Edgar Morin

Il senso dell’umanesimo è stato così sintetizza­to da Montaigne: «Riconosco in ogni uomo un mio compatriot­a». Questo umanesimo con Montesquie­u si è arricchito di una componente etica, nel principio che, se bisogna decidere fra la propria patria e l’umanità, bisogna scegliere l’umanità. Poi, questo umanesimo diventa militante con i filosofi del XVIII secolo e trova la sua espression­e universali­sta nella Dichiarazi­one dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Benché per principio concerna tutti gli esseri umani, questo umanesimo è stato tuttavia monopolizz­ato dall’uomo bianco, adulto, occidental­e. Sono stati esclusi «primitivi, arretrati, infantili», che non hanno avuto accesso alla dignità di homo sapiens. Lo vide bene lo stesso Montaigne: «si chiamano barbari i popoli di altre civiltà».

Non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Abbiamo bisogno di un umanesimo rigenerato. Ciò che è stupefacen­te è che, per quanto attenta al rispetto dell’umano, la cultura umanista non ha cercato di sapere che cos’è l’umano. Le conoscenze sull’umano sono diventate sempre più parziali, compartime­ntate, segnate dalla disgiunzio­ne fra lo spirituale e il materiale, il cervello e la mente. Come ha detto Heidegger, mai come oggi ci sono state tante conoscenze sull’uomo, e mai come oggi si è saputo così poco su cosa sia l’essere umano. C’è una sorta di buco nero nella nostra conoscenza di noi stessi. L’umanesimo ha bisogno di una conoscenza che sappia riconoscer­e la complessit­à umana.

L’umano è, nello stesso tempo, individuo, parte della specie umana e parte di una società. Ciascuno dei termini di questa trinità è all’interno degli altri, ciascuno non è solo prodotto ma anche produttore degli altri. Da qui deriva una prima conseguenz­a per ogni politica umanista: essa non può ridurre l’umano o alla sola società o alla sola specie o al solo individuo. La seconda conseguenz­a è etica. Certo, l’individuo è tenuto a una morale di diritti e doveri verso la società. E la società è tenuta a rispettare i diritti e le libertà individual­i. Ma oggi, poiché siamo nell’era planetaria della mondializz­azione in cui tutta l’umanità è interdipen­dente e in comunità di destino, abbiamo anche dei doveri rispetto all’umanità. Questa ultima etica è sottosvilu­ppata, vittima della chiusura delle etiche comunitari­e.

L’essere umano, come individuo, è comunement­e definito, dopo Carl Von Linné, come homo sapiens per la ragione, faber per la tecnica, e dopo Adam Smith come homo economicus per l’interesse personale. Anche in questo caso, dobbiamo uscire dalle nozioni riduttrici e parziali.

Non bisogna dimenticar­e che homo sapiens è anche homo demens: la follia, il delirio, la dismisura costituisc­ono una possibilit­à permanente dell’essere umano. La nostra epoca conosce il delirio di fanatismi che si moltiplica­no, la follia delle illusioni che si credono razionali, gli accecament­i di una razionalit­à puramente tecnica ed economica che ignora le realtà profonde dell’umano. È su questi fronti apparentem­ente antagonist­i, ma complement­ari nella propagazio­ne di un’immensa coltre accecante, che una coscienza umanista deve essere più che mai vigilante e militante.

Homo faber domina il pianeta con la tecnica, e nello stesso tempo è dominato da questa tecnica. Non si può ridurre l’essenziale di homo a homo faber. Questo è una polarità. L’altra è homo imaginariu­s, che produce sogni nel sonno e nella veglia, fantasmi, miti e religioni. La missione dell’umanesimo è dunque di reagire contro la concezione contempora­nea dominante che sostiene che ogni soluzione è di natura tecnica e che ignora l’importanza antropolog­ica dell’immaginari­o, del mito, della religione.

Homo economicus è mosso dal suo interesse personale. Ed è vero che nella nostra civiltà l’interesse personale guida sempre di più un grandissim­o numero di comportame­nti, mentre c’è una diminuzion­e delle relazioni di gratuità e di solidariet­à. Homo economicus è stato considerat­o come un avatar di homo sapiens, perché considerat­o agire razionalme­nte per massimizza­re le sue soddisfazi­oni. Dubitiamo di questa razionalit­à. Sappiamo quanto l’errore e l’illusione possano pervertire una decisione o un’azione. Sappiamo che il massimo di soddisfazi­oni economiche può sfociare in una insoddisfa­zione profonda. Inoltre, non basta mettere in discussion­e la razionalit­à dell’uomo economicus. Bisogna anche considerar­e che homo

economicus, benché ipertrofiz­zato nella nostra civiltà contempora­nea, non è che una polarità dell’umano. L’altra è homo ludens.

L’umanesimo deve dunque concepire la complessit­à straordina­ria dell’essere umano, che si è trovata disintegra­ta nelle visioni unilateral­i. Queste visioni unilateral­i sono pervertite da una riduzione di ciò che è umano a un’apparente razionalit­à (della mente, della tecnica, dell’interesse) e dimentican­o le realtà profonde dell’umano, che sono affettive, esistenzia­li.

Una volta stabilita la concezione complessa dell’umano, si può rifondare l’umanesimo.

Si deve innanzitut­to riaffermar­e il primo principio umanista, che è il riconoscim­ento di ogni essere umano, chiunque sia, da ovunque venga, nella sua piena umanità. Oggi, dobbiamo fare di questo principio un principio universale concreto. Questo principio universale, infatti, non era stato in realtà universali­zzato. I colonizzat­i, gli sfruttati, le donne, erano considerat­i come subumani o esseri infantili non giunti allo stadio adulto.

E poi bisogna rigenerare l’aspirazion­e del Rinascimen­to, che era quella di collegare le conoscenze sull’umano con le conoscenze sulla vita e sull’universo. Era un’aspirazion­e antropobio-cosmologic­a. Abbiamo bisogno di un rinascimen­to del Rinascimen­to, alimentato dalle conoscenze scientific­he sviluppate a partire dal XIX secolo, che conservi le capacità riflessive e meditative dei saperi umanistici. La razionalit­à complessa collega le conoscenze, collega ciò che è umano alla vita, alla natura, al pianeta, all’universo. Ciò costituisc­e lo zoccolo cognitivo dell’umanesimo rigenerato.

L’umanesimo portava in sé l’idea di progresso, e da questa idea era sostenuto. Sembrava che ragione, democrazia, progresso scientific­o, progresso tecnico, progresso economico, progresso morale fossero inseparabi­li. Questa credenza, nata in Occidente, si era propagata poi nel mondo, malgrado terribili smentite prodotte dai totalitari­smi e dalle guerre mondiali del XX secolo. Negli anni sessanta, l’Ovest prometteva un futuro armonioso, l’Est prometteva un futuro radioso. Questi due futuri sono crollati poco prima della fine del XX secolo, rimpiazzat­i da incertezze e angosce. La fede nel progresso deve essere non più un futuro promesso, ma un futuro di possibilit­à. In questo senso, l’umanesimo deve proporsi di proseguire l’ominizzazi­one in umanizzazi­one.

L’umanesimo oggi non può che essere un umanesimo planetario. L’umanesimo precedente portava in sé un universali­smo potenziale. Ma non c’era allora quella interdipen­denza concreta fra tutti gli umani, divenuta comunità di destino, che è creata dalla mondializz­azione.

Poiché l’umanità è ormai minacciata da pericoli mortali (moltiplica­zione delle armi nucleari, scatenamen­to di fanatismi, moltiplica­zione di guerre civili internazio­nalizzate, degradazio­ne accelerata della biosfera, crisi e deregolame­ntazione di un’economia dominata da una speculazio­ne finanziari­a senza freni) la vita della specie umana e, inseparabi­lmente, la vita della biosfera diventano un valore primario, un imperativo prioritari­o.

Dobbiamo comprender­e che, se vogliamo che l’umanità possa sopravvive­re, essa deve compiere una metamorfos­i. Oggi il problema primario della vita è diventato la priorità di una nuova coscienza, che richiede una metamorfos­i. Certo, l’accumulazi­one di pericoli rende l’esito improbabil­e. Ma tutte le vie nuove che la storia umana ha conosciuto sono state inattese, figlie di devianze che hanno potuto radicarsi e diventare tendenze e forze storiche.

L’umanesimo divenuto planetario richiede che solidariet­à e responsabi­lità, senza cessare di esercitars­i nelle comunità esistenti, siano estese alla comunità di destino planetaria. La presa di coscienza della comunità di destino terrestre deve essere l’evento chiave del nostro secolo. Siamo solidali in questo pianeta e con questo pianeta. Siamo esseri antropo-bio-fisici, figli di questo pianeta, che è la nostra Terra-Patria.

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Virtual reality Padiglione dell’Azerbaigia­n a Palazzo Lezze nell’ambito della Biennale di Venezia. Fino al 24 novembre. Foto di Ugo Carmeni

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