Il confine tra vite immaginarie e vite vissute
Tutte le vite immaginarie possono essere di due tipi: quelle vite che non si sono mai tradotte in vite real
mente vissute; e le vite realmente
vissute. Come? Che stai dicendo? Ora mi spiego, ma supponiamo anzitutto due esempi. Un fanciullo di ottanta anni fa potrebbe aver immaginato che, da grande, avrebbe fatto il tranviere (allora, posso assicurare, questa cosa capitava spesso, godendo i tranvieri, agli occhi dei bambini di quei tempi, di un particolare prestigio); da grande fece invece lo scienziato. Gli esempi delle due vite, una immaginaria, l’altra reale e realizzata, sono chiari, ma non aiutano a comprendere l’ambigua distinzione proposta all’inizio.
Essa infatti distingue bensì tra vite immaginarie e vite vissute, ma poi fa delle vite vissute una parte delle vite immaginarie. Così non va, pensa il senso comune, perché allora le due vite sono contemporaneamente parte e tutto di loro stesse. La vita vissuta conterrebbe anche in sé, come un tutto, la vita immaginaria come sua parte (una vita vissuta di fanciullo occasionalmente anche si immagina un futuro da tranviere); e d’altra parte la vita immaginaria, come un tutto, avrebbe anchein sé, come sua parte, la vita vissuta (la vita vissuta dello scienziato ha anche
necessariamente in sé una vita immaginaria come suo tutto): ora, con questi due corsivi, forse cominci a intuire che cosa voglio dire; che potrei esprimere anche così: vita vissuta e vita immaginaria fanno uno, senza però mai coincidere. Ma se vogliamo comprendere davvero, ora dobbiamo chiederci: che cos’è però una vita vissuta? O: com’è fatta una vita vissuta? Se osservi la tua vita, vivente e vissuta, forse converrai che essa è sempre attiva o in azione (anche quando non fai nulla, in quanto forma difettiva del fare: fare la siesta, lasciar vagare i pensieri e simili). Ora, questo vissuto-vivente si accompagna necessariamente con l’immaginario che caratterizza e accompagna ogni azione (cioè un da dove e un verso dove del mio dove, fosse anche il semplice perseverare nel riposo). Tale condizione nasce con noi e ci accompagna per sempre: da quando siamo lattanti (e a quanto pare immaginiamo seni buoni e cattivi) a ciò che evidentemente continuo a immaginare scrivendo qui quello che sto scrivendo.
In questa prospettiva, ciò che chiamiamo vita immaginaria non sarebbe altro che una continua
estensione (appunto immaginaria e sempre in atto) di ciò che riteniamo in ogni istante di vivere e di essere:
extensio animae, direbbe Agostino. Lasciamo in pace l’anima e proviamo invece a dire così: c’è un immaginario strutturale, concomitante e con-costitutivo del vissuto e nel vissuto (in ogni vissuto) che continuamente si protende e si estende oltre la soglia mobile e diveniente del vissuto stesso.
Questo immaginario prende la forma di ciò che fu (ciò che immaginiamo che sia stato); di ciò che (immaginiamo) ci sarà; di ciò che poteva essere e non è stato (per esempio il tragico secondo Whitehead); di ciò che potrebbe essere e non sarà (per esempio i bambini non nati di Eliot). Tutti questi “ciò che” camminano costantemente con “ciò che è” o diviene, cioè con ognuno di noi. Ciò che è, è allora una specie di “commercio” con e delle vite immaginarie. Queste vite le esemplifico per esempio così. Quelli che vivono (nel nostro immaginario, beninteso) con noi, i compagni di vita e di ventura ai quali così spesso pensiamo e comunque teniamo presenti: come parenti e amici, nemici e avversari, colleghi e superiori. Quelli che non vivono con noi, ma sono di fatto i nostri contemporanei, vicini e lontani. Quelli che, vivendo con noi, continueranno a vivere dopo di noi. Tutti quelli che vivranno nel futuro in cui noi non ci saremo. Quelli che hanno vissuto con noi e ora non ci sono più. Quelli che vissero prima di noi nel passato, prossimo e remoto. Quelli che vivranno in un futuro che non ci comprende. Ecco le innumerevoli vite immaginarie (un bello stuolo!) che, in un modo o in un altro, camminano con noi.
Ciò accade in modo esplicito e
implicito, creando nell’insieme una sorta di intreccio irresolubile. In modo esplicito questo mio scrivere al computer come sto facendo tiene immaginariamente presenti le persone a me vicine in quanto possibili destinatarie di questo testo; futuripossibili lettori e fruitori per i quali mi sforzo di essere chiaro e comprensibile, anzitutto mettendomi idealmente al loro posto; i giovaniche oggi studiano filosofia; i futuri cultori di questa disciplina; quello che ho imparato dai miei maestri; le parole dei filosofi del passato che ho studiato e amato, e molto, molto altro ancora.
In modo implicito cammina con me l’azione di tutti coloro che, a partire da una sterminata antichità sino al presente, hanno reso possibile la scena attuale della quale sono protagonista, insieme fortemente condizionandola del tutto a mia insaputa: queste mani, questi tasti, queste parole, questi stessi pensieri, questa intera vita immaginari che scrive, si scrive e viene scritta.