Pappano inaugura la stagione di Santa Cecilia con la «Grande Messe» di Berlioz a 150 anni dalla scomparsa del compositore. Nessuna gravità, un inno alla musica Un Requiem per la vita
Pappano ci ha abituati alle inaugurazioni più diverse e strane, per la stagione della sua Orchestra e Coro di Santa Cecilia: un anno la leggerezza di Bernstein nel musical West Side
Story, l’anno prima l’inquieto e ancor più sconosciuto Re Ruggero di Szymanowski, indietro ancora Aida (stupenda) oppure Rossini. Per il prossimo taglio del nastro sono già stati fissati i wagneriani Meistersinger, bel progetto. Mentre per questo, con un pizzico di ironia - o di senso del tragico, che poi sono la stessa cosa - si annunciava la Grande Messe
des morts, op.5 di Hector Berlioz. Un Requiem per aprire? Perché? Per omaggiare i centocinquant’anni dalla morte del compositore, certo. E gli anniversari rappresentano sempre un’occasione riflessiva. Ma non basta. Bisogna aggiungere anche: per far conoscere questa partitura di rara esecuzione, che tra l’altro debuttò in Italia proprio a Roma, nel 1926, con Bernardino Molinari, all’Augusteo. Pagina esemplare della magniloquenza del ragazzaccio francese, ribelle e visionario, lui che nel primo Ottocento (1830 è la Fantastica, 1837 il Requiem) osò per primo rivoluzionare l’uso degli impasti in orchestra: tutti i più grandi strumentatori venuti dopo non sarebbero esistiti senza di lui, da Mahler a Puccini a Stravinski. Non è un caso che lo scandalo del Sacre, con l’attacco del fagotto su nell’acuto, sia avvenuto a Parigi, e non altrove.
Ma, per tornare a Antonio Pappano, dirigere Berlioz con le sue masse corali e orchestrali in falange guerresca, e trasformarle in un corpo duttile, espressivo, passando dai clangori affermativi al pulviscolo più moderno, senza mai retorica, senza mai il
farlo strano per vedere cosa succede, e tenendo tutti i novanta minuti della
Messa con la tensione di un grande affresco, significa possedere nel profondo sensibilità, fantasia, e tecnica da podio. Altro che Requiem, questo era un Iubilate, un inno alla vitalità della musica. Governato col gesto semplice, che è Pappano. Che non veste giacche (in nessun senso, dirige in camicia) che non imita altri, che
non fa mai nulla nelle indicazioni dal
podio senza significato e risultati palesi, su quello che noi ascoltiamo. Un’oasi, per chi arrivi da Milano, dove persino la Lucerne Festival Orchestra entrava con gli attacchi sporchi.
Certo, non tutto era perfetto nella
Grande Messe. Ad esempio, subito all’inizio - perfido Berlioz - alle voci femminili veniva richiesto un ingresso etereo, come si usava nel sacro francese romantico (probabilmente da cantare secondo quella scuola) tipo ali di angeli, a farci immaginare una pace desiderata, nell’aldilà, assolutamente visionaria,
flash di pura luce. Ecco, dal vivo effetti come questi non riescono quasi mai. A freddo, poi. E aggiungete che qui, nella Sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma, traboccante di autorità e pubblico, alla fine festoso (e prima attento, a parte due trilli di telefono e varie tossi) Toni Pappano non aveva solamente i suoi ottanta del Coro dell’Accademia, da concertare, ma anche i sessanta del Teatro di San Carlo. Giunti in sinergia, da Napoli, per una prima e tangibile collaborazione, tra due Fondazioni, non solo geograficamente vicine.
Nel procedere dell’esecuzione i centoquaranta schierati in cinque file, maestosi, diventavano un corpo solo: bello di sonorità, in particolare nei momenti di scrittura più distesa e ampia. Con la morbidezza italica del porgere la parola, del legato cantante. Tra l’altro col debutto del nuovo Maestro del Coro, per Santa Cecilia, Piero Monti. E altrettanto bene, in somma disciplina, procedevano coi loro interventi gli ottoni della Banda della Polizia di Stato, disposti in quattro gruppi (come piacerà poi a Boulez) sulle gradinate alte, sempre in perfetto appiombo. E specchiati nel contrappunto con l’Orchestra, con la splendida spalla di Carlo Parazzoli, morbida e disciplinata: stupenda nelle parti più audaci della scrittura, dove Berlioz crea spazi col suono, nei riverberi tra sezioni lon
tane, come nell’Agnus Dei tra fiati e viole. Una gemma per i melomani i pochi minuti del Sanctus con Javier Camarena, il tenore da prenotare subito, qui al debutto italico. Peccato fossero solo sei, gli Amen finali: sottovoce, cangianti sulle armonie. Li avremmo ascoltati all’infinito.
GRANDE MESSE DES MORTS
di Berlioz Javier Camarena, tenore; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Coro del Teatro di San Carlo, Banda della Polizia di Stato; direttore Antonio Pappano; Roma, Auditorium Parco della Musica