Violenza elettrodomestica
Gli sgomenti di una generazione e gli sconquassi dell’economia sono affidati al dialogo tra tre macchine cuociriso nella geniale pièce del performer sudcoreano Jaha Koo
Anche quest’anno il FIT Festival di Lugano è stato un crocevia dei fermenti più avanzati della nuova scena internazionale. La rassegna diretta da Paola Tripoli e Carmelo Rifici, ormai cara anche a molti spettatori milanesi dediti alla civile abitudine di estendere le proprie curiosità culturali oltre i confini della cerchia urbana, offre sempre preziosi strumenti di analisi e approfondimento grazie a un pensiero, a un’idea di fondo: è un festival a tema, che esplora le linee del teatro contemporaneo da prospettive ogni volta diverse.
Se le scorse edizioni erano state dedicate ai rapporti fra verità e finzione, alle nuove espressioni della riflessione politica, alla biografia e all’autobiografia come sfrontata messa a nudo di sé, il programma che si è appena concluso si sviluppava attorno a una materia cruciale, la violenza e i vari modi di portarla alla ribalta. La violenza è una componente imprescindibile di un teatro che aspira a catturare direttamente la realtà, e non può quindi sottrarsi al confronto coi suoi aspetti più cruenti, dai comuni fatti di sangue ai grandi conflitti etnici.
A parte i due spettacoli per certi versi più importanti, Imitation of
life di Kornél Mundruczó e Granma. Trombones from Havana dei Rimini Protokoll, di cui si è già parlato in una precedente occasione, l’evento più sorprendente di questo festival mi è parso
Cuckoo del geniale performer sudcoreano Jaha Koo, che affida il compito di raccontare gli sgomenti di una generazione e gli sconquassi dell’economia mondiale a tre cuociriso elettriche, dotate di voci meccaniche di solito destinate ad annunciare che il piatto è pronto.
I tre apparecchi, i Cuckoo che da vent’anni - spiega lui - sono un marchio di punta dell’industria nazionale, stanno allineati su un tavolino. Uno di essi si presenta dicendo che in origine il suo ruolo era di cuocere il riso, ma ora fa l’attore. Un secondo si vanta di poter comunicare assai meglio avendo anche dei led colorati e uno schermo LCD. I due litigano, si danno del bastardo e del figlio di puttana. Su una cosa però concordano, sul fatto che il terzo cuociriso non parla ma è l’unico che adempia alla propria funzione culinaria, e che infatti fin dall’inizio emana un getto di fumo ed entra in azione.
La rissa verbale fra i due elettrodomestici è piuttosto surreale, e dà la misura dell’inquieta ironia, della stralunata leggerezza con cui il giovane artista, emigrato in Europa, affronta vicende complesse e impegnative. Interloquendo coi cuociriso, Koo intreccia la bancarotta coreana e le trame del Fondo Monetario Internazionale con l’infelicità di una generazione minata dalla sfiducia e da quello che lui chiama Golibmuwon, termine intraducibile che indica un «isolamento senza aiuto».
Impassibile dietro ai suoi petulanti fornelli, accompagnando le parole con immagini di scontri di piazza e spezzoni di notiziari, Koo evoca uno scenario denso e articolato che svaria dagli intrighi di Robert Rubin, segretario del Tesoro nell’amministrazione Clinton, al suicidio di un amico alla tragica fine di un operaio della metropolitana di Seul, travolto da un treno di cui all’improvviso si accendono i fari sul fondo del palco. Compositore, oltre che performer, dispone questi elementi in una costruzione perfetta, dall’andamento quasi musicale, scandita dai tempi di cottura del riso da parte dell’unico Cuckoo che non sa recitare.
Fra le altre proposte, è risultato come sempre intelligente e provocatorio l’autore-regista libanese Rabih Mroué, che nel suo Sand in
the eyes parte dal ritrovamento vero o inventato che sia - di un video dell’Isis, di cui rifiuta di mostrare i truci contenuti, per esporre un aguzzo teorema sulla manipolazione delle immagini che equipara i terroristi a chi dovrebbe combatterli, in questo caso i servizi di sicurezza tedeschi. Qui il teatro è ridotto al minimo: seduto a un tavolino, davanti al computer, Mroué si affida unicamente ai documenti proiettati su uno schermo e alle proprie pungenti capacità di ragionamento.
H2-Hebron del gruppo israeliano Winter family si basa su un plastico, montato su un grande tavolo, dell’area della città palestinese di Hebron amministrata da Israele, e sull’incalzante partitura verbale dell’immaginaria guida turistica che conduce il pubblico in un’ideale visita alla sua strada principale: il testo, nato da una serie di interviste, mescola paradossalmente i punti di vista, le rivendicazioni, i pregiudizi dell’una e dell’altra parte, in un ossessivo, rabbioso intarsio di voci da cui emerge un soffocante quadro di violenze, di sopraffazioni, di reciproche insofferenze, di diritti umani negati.
Il progetto è affascinante, ma la sua realizzazione si inceppa un po’, a mio avviso, perchè in quel vorticoso sovrapporsi di visioni contrapposte si rischia di perdere il filo, non è ben chiaro chi stia parlando, e poi sembra esserci uno scarso rapporto fra l’attrice e i modellini di edifici. Importante per l’argomento, ma formalmente piuttosto confuso, è parso anche Cine della compagnia spagnola La Tristura, che ripercorrendo con taglio vagamente cinematografico il viaggio di un uomo in cerca della propria identità pone in luce un problema non molto conosciuto, quello delle migliaia di bambini rubati ai genitori e venduti sotto il regime franchista.
Un discorso a parte va fatto per i bellissimi docufilm di due maestri dell’approccio alla realtà, Milo Rau e Lola Arias, che esemplificano modi opposti di accostarsi alle violenze della guerra: Rau, in The Congo tribunal, inquadra frontalmente, con lucida oggettività, gli orrori che per vent’anni hanno insanguinato lo Stato africano, allestendo la simulazione di un processo che comunque ne denunci colpe e responsabilità. La Arias, in Teatro de Guerra, mette a confronto sei veterani delle Falkland/Malvinas, tre inglesi e tre argentini, che rivivono i gesti di quel loro passato militare con una sorta di smarrimento esistenziale, una struggente presa d’atto del tempo trascorso.
FIT FESTIVAL
al LAC di Lugano