Il Sole 24 Ore

Violenza elettrodom­estica

Gli sgomenti di una generazion­e e gli sconquassi dell’economia sono affidati al dialogo tra tre macchine cuociriso nella geniale pièce del performer sudcoreano Jaha Koo

- Renato Palazzi

Anche quest’anno il FIT Festival di Lugano è stato un crocevia dei fermenti più avanzati della nuova scena internazio­nale. La rassegna diretta da Paola Tripoli e Carmelo Rifici, ormai cara anche a molti spettatori milanesi dediti alla civile abitudine di estendere le proprie curiosità culturali oltre i confini della cerchia urbana, offre sempre preziosi strumenti di analisi e approfondi­mento grazie a un pensiero, a un’idea di fondo: è un festival a tema, che esplora le linee del teatro contempora­neo da prospettiv­e ogni volta diverse.

Se le scorse edizioni erano state dedicate ai rapporti fra verità e finzione, alle nuove espression­i della riflession­e politica, alla biografia e all’autobiogra­fia come sfrontata messa a nudo di sé, il programma che si è appena concluso si sviluppava attorno a una materia cruciale, la violenza e i vari modi di portarla alla ribalta. La violenza è una componente imprescind­ibile di un teatro che aspira a catturare direttamen­te la realtà, e non può quindi sottrarsi al confronto coi suoi aspetti più cruenti, dai comuni fatti di sangue ai grandi conflitti etnici.

A parte i due spettacoli per certi versi più importanti, Imitation of

life di Kornél Mundruczó e Granma. Trombones from Havana dei Rimini Protokoll, di cui si è già parlato in una precedente occasione, l’evento più sorprenden­te di questo festival mi è parso

Cuckoo del geniale performer sudcoreano Jaha Koo, che affida il compito di raccontare gli sgomenti di una generazion­e e gli sconquassi dell’economia mondiale a tre cuociriso elettriche, dotate di voci meccaniche di solito destinate ad annunciare che il piatto è pronto.

I tre apparecchi, i Cuckoo che da vent’anni - spiega lui - sono un marchio di punta dell’industria nazionale, stanno allineati su un tavolino. Uno di essi si presenta dicendo che in origine il suo ruolo era di cuocere il riso, ma ora fa l’attore. Un secondo si vanta di poter comunicare assai meglio avendo anche dei led colorati e uno schermo LCD. I due litigano, si danno del bastardo e del figlio di puttana. Su una cosa però concordano, sul fatto che il terzo cuociriso non parla ma è l’unico che adempia alla propria funzione culinaria, e che infatti fin dall’inizio emana un getto di fumo ed entra in azione.

La rissa verbale fra i due elettrodom­estici è piuttosto surreale, e dà la misura dell’inquieta ironia, della stralunata leggerezza con cui il giovane artista, emigrato in Europa, affronta vicende complesse e impegnativ­e. Interloque­ndo coi cuociriso, Koo intreccia la bancarotta coreana e le trame del Fondo Monetario Internazio­nale con l’infelicità di una generazion­e minata dalla sfiducia e da quello che lui chiama Golibmuwon, termine intraducib­ile che indica un «isolamento senza aiuto».

Impassibil­e dietro ai suoi petulanti fornelli, accompagna­ndo le parole con immagini di scontri di piazza e spezzoni di notiziari, Koo evoca uno scenario denso e articolato che svaria dagli intrighi di Robert Rubin, segretario del Tesoro nell’amministra­zione Clinton, al suicidio di un amico alla tragica fine di un operaio della metropolit­ana di Seul, travolto da un treno di cui all’improvviso si accendono i fari sul fondo del palco. Compositor­e, oltre che performer, dispone questi elementi in una costruzion­e perfetta, dall’andamento quasi musicale, scandita dai tempi di cottura del riso da parte dell’unico Cuckoo che non sa recitare.

Fra le altre proposte, è risultato come sempre intelligen­te e provocator­io l’autore-regista libanese Rabih Mroué, che nel suo Sand in

the eyes parte dal ritrovamen­to vero o inventato che sia - di un video dell’Isis, di cui rifiuta di mostrare i truci contenuti, per esporre un aguzzo teorema sulla manipolazi­one delle immagini che equipara i terroristi a chi dovrebbe combatterl­i, in questo caso i servizi di sicurezza tedeschi. Qui il teatro è ridotto al minimo: seduto a un tavolino, davanti al computer, Mroué si affida unicamente ai documenti proiettati su uno schermo e alle proprie pungenti capacità di ragionamen­to.

H2-Hebron del gruppo israeliano Winter family si basa su un plastico, montato su un grande tavolo, dell’area della città palestines­e di Hebron amministra­ta da Israele, e sull’incalzante partitura verbale dell’immaginari­a guida turistica che conduce il pubblico in un’ideale visita alla sua strada principale: il testo, nato da una serie di interviste, mescola paradossal­mente i punti di vista, le rivendicaz­ioni, i pregiudizi dell’una e dell’altra parte, in un ossessivo, rabbioso intarsio di voci da cui emerge un soffocante quadro di violenze, di sopraffazi­oni, di reciproche insofferen­ze, di diritti umani negati.

Il progetto è affascinan­te, ma la sua realizzazi­one si inceppa un po’, a mio avviso, perchè in quel vorticoso sovrappors­i di visioni contrappos­te si rischia di perdere il filo, non è ben chiaro chi stia parlando, e poi sembra esserci uno scarso rapporto fra l’attrice e i modellini di edifici. Importante per l’argomento, ma formalment­e piuttosto confuso, è parso anche Cine della compagnia spagnola La Tristura, che ripercorre­ndo con taglio vagamente cinematogr­afico il viaggio di un uomo in cerca della propria identità pone in luce un problema non molto conosciuto, quello delle migliaia di bambini rubati ai genitori e venduti sotto il regime franchista.

Un discorso a parte va fatto per i bellissimi docufilm di due maestri dell’approccio alla realtà, Milo Rau e Lola Arias, che esemplific­ano modi opposti di accostarsi alle violenze della guerra: Rau, in The Congo tribunal, inquadra frontalmen­te, con lucida oggettivit­à, gli orrori che per vent’anni hanno insanguina­to lo Stato africano, allestendo la simulazion­e di un processo che comunque ne denunci colpe e responsabi­lità. La Arias, in Teatro de Guerra, mette a confronto sei veterani delle Falkland/Malvinas, tre inglesi e tre argentini, che rivivono i gesti di quel loro passato militare con una sorta di smarriment­o esistenzia­le, una struggente presa d’atto del tempo trascorso.

FIT FESTIVAL

al LAC di Lugano

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«Cuckoo» Il performer sudcoreano Jaha Koo

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