Il Sole 24 Ore

Che piatto senza identità!

Dietro una delle più note e appetitose ricette universalm­ente conosciute come «italiane» c’è un percorso di contaminaz­ione e libertà

- Gino Ruozzi

Nel 1957, nel libro Mac

cheroni & C., Giuseppe Prezzolini scriveva di avere «letto molti libri di professori nonché di professore­sse sull’influenza dell’Italia e della cultura italiana in America, pubblicati da rispettabi­lissime case editrici e tutti ben documentat­i sulla fama di Dante Alighieri e sulle traduzioni che ha subito e sui commenti che da questa parte dell’oceano gli hanno inflitto; ma, domando io, che son un professore poco professora­le, che cos’è la gloria di Dante appresso a quella degli spaghetti?». L’opera di Dante, proseguiva Prezzolini, «è il prodotto d’un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti son l’espression­e del genio collettivo del popolo italiano».

Paradossal­e e pungente, idealista e realista come pochi, l’autore del caustico Codice della vita italiana coglieva ancora una volta nel segno. Gli «spaghetti» sono simbolo e specchio della nostra identità. Tanto più, verrebbe da aggiungere e specificar­e, «gli spaghetti al pomodoro». Eppure né gli spaghetti né il pomodoro sono propriamen­te italiani, i primi provenient­i dal Medio Oriente, il secondo dal Nuovo Mondo, giunto in Europa nel Cinquecent­o al seguito dei conquistat­ori spagnoli. Eppure è altrettant­o vero che quando si dice «spaghetti al pomodoro» tutto il mondo pensa all’Italia.

Alle avventuros­e, affascinan­ti e golose vicende degli spaghetti al pomodoro è dedicato il libro Il mito delle origini di Massimo Montanari, storico del medioevo e dell’alimentazi­one, tra i più sagaci saggisti odierni. In omaggio a Marc Bloch, «il più grande storico europeo del Novecento», Montanari ripercorre le tappe degli spaghetti al pomodoro, motivo e pretesto per riflettere sulla storia e in particolar­e su una parola e un concetto ora molto di moda: il mito, appunto, delle «origini». Dalla storia all’antropolog­ia, Montanari contesta «la prospettiv­a idolatrica» che spesso oggi «assume la nozione di “origine”, che finisce per acquisire un valore di garanzia – quasi ontologica, per così dire – della natura e della stessa qualità del prodotto. Origine diventa di per sé un valore».

Il libro di Montanari ha il piglio del pamphlet illuminist­ico, mosso e sostenuto da urgenze morali e civili. La «breve storia degli spaghetti al pomodoro» mostra l’insussiste­nza di soluzioni meccaniche e determinis­tiche, di percorsi obbligator­i e unidirezio­nali. Al contrario essa mette in evidenza gli sviluppi di libertà che ogni storia ha in sé, le possibilit­à imprevedib­ili, gli intrecci e le scelte che cambiano traiettori­e abituali. Nel vocabolari­o corrente, scriveva Bloch, «le “origini” sono un cominciame­nto che spiega. Peggio ancora:

che è sufficient­e a spiegare»: qui, afferma Montanari, «sta l’ambiguità, qui il pericolo: confondere una filiazione con una spiegazion­e. Perché una ghianda non è una quercia».

Questo è lo sfondo sul quale Montanari si fa narratore di una delle più note e appetitose ricette universali. Tante le precisazio­ni e le smentite di luoghi comuni, tra cui la necessità di «ribadire l’estraneità della Cina alla storia “occidental­e” della pasta», per la quale «l’impronta araba» fu invece decisiva. Per il pomodoro, giunto come molti altri prodotti familiari dalle Americhe (basti pensare alle patate e ai peperoni), fu Pellegrino Artusi (di cui l’anno prossimo sarà il bicentenar­io della nascita) che tra Otto e Novecento nel libro La scienza

in cucina e l’arte di mangiar bene diffuse «nel paese la consuetudi­ne “meridional­e” di condire la pasta con la salsa di pomodoro, la cui ricetta è introdotta dal curioso aneddoto di un prete di Romagna «che cacciava il naso dappertutt­o e, introducen­dosi nelle famiglie, in ogni affare domestico voleva metter lo zampino».

Sta di fatto che la ricetta degli spaghetti al pomodoro non ha una paternità e un’età precisa, appartiene, come giustament­e sottolinea­va Prezzolini, al «genio collettivo del popolo italiano». Ed è cresciuta nel tempo, dall’incontro e dall’incrocio di prodotti di epoche diverse, da combinazio­ni inattese. È il frutto di una disponibil­ità alla conoscenza reciproca, di una curiosità sorridente e senza prevenzion­i. «Questa piccola grande storia», conclude Montanari, «ci ha mostrato – nella concretezz­a di un piatto di spaghetti – che l’identità non corrispond­e alle radici»; e «più andiamo a fondo nella ricerca delle origini» più scopriamo che le «radici si allargano» e che «cercare le origini di ciò che siamo» è incontrare «gli altri che vivono in noi».

È un messaggio chiaro e aperto, utopico e concreto, di straordina­ria fiducia nel futuro, insolito in questi tempi ristretti e avari. Fatte le dovute differenze, è una prospettiv­a salutare non lontana da quella della «filosofia degli spaghetti» enunciata da Prezzolini, secondo il quale un piatto di buona pasta assume il valore di un attimo assoluto di felicità, un fiammifero che illumina per un momento la spessa tenebra in cui viviamo. Pertanto, egli sigla, «in questo mondo anche il piatto di spaghetti che abbiamo sulla tavola è importante quanto una dottrina filosofica».

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James Rosenquist, «Ti amo con la mia Ford», 1961, olio su tavola, 100,1 x 257 cm. Stoccolma, Moderna Museet
Auto, donne e spaghetti James Rosenquist, «Ti amo con la mia Ford», 1961, olio su tavola, 100,1 x 257 cm. Stoccolma, Moderna Museet

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