Studi clinici: una montagna di dati fa riscrivere le terapie
Mentre l’attenzione della ricerca di oggi è sulla salute individuale, quella di domani sarà sulla salute della popolazione e nel mondo delle vite traccibili misureremo i fattori di rischio con il cellulare
Il mondo della ricerca medica è alle prese con una vera e propria montagna di dati da analizzare. Ma per poterli utilizzare devono essere integrati e rappresentativi. Ne parliamo con Francesca Dominici, professore di Biostatistica e co-direttore della Data Science Initiative dell’Università di Harvard, che ci racconta l’impatto rivoluzionario che avranno i dati sugli studi clinici, la prevenzione e sul sistema sanitario nazionale.
Entro il 2020 esisteranno oltre 44 zettabyte di dati digitali (44 trilioni di gigabyte), di cui abbiamo attualmente analizzato solo lo 0,5 per cento. Ma cosa potremo ottenere attingendo da questo immenso pool di dati con gli strumenti e gli approcci giusti? Lo abbiamo chiesto a Francesca Dominici, professore di Biostatistica e co-direttore della Data Science Initiative dell’Università di Harvard, di passaggio a Milano per un keynote speech all’evento di Iqvia dal titolo: “Il tempo della human data science”.
In questi ultimi anni siamo stati letteralmente travolti dai dati, «fenomeno dal quale non si tornerà indietro, anzi vivremo sempre di più in un mondo strabordante di dati - interviene Dominici - dove per dato intendiamo una informazione ricchissima, veloce e variegata.
Quindi, da una parte ci sono i dati e le piattaforme per raccoglierli, dall’altro il machine learning e l’intelligenza artificiale (Ai), ovvero i data science tools per analizzarli. «Nel mio ruolo di direttore di data science c’è anche quello di far capire alle nuove generazioni, che Ai e machine learning sono strumenti potentissimi a patto che siano “seduti” su una banca dati ricca e accurata, altrimenti è come dare una Ferrari a chi non sa guidare». Quindi machine learning e Ai non servono a nulla se non abbiamo piattaforme tecnologiche ricche, solide e scalabili.
«Oggi possiamo costruire piattaforme su tantissimi elementi che hanno un impatto sulla nostra salute: dove viviamo, cosa respiriamo, cosa mangiamo,come ci muoviamo, cosa compriamo, ma anche cosa pensiamo. Tutte queste cose sono misurabili ed essere connesse con la nostra salute», precisa. Quindi le potenzialità e le opportunità sono enormi nell’ambito healthcare: dall’incidenza delle malattie all’ottimizzazione nella gestione delle ospedalizzazioni fino all’attività clinica di un nuovo farmaci. «I dati ospedalieri sono molto regolamentati, quasi fin troppo perché si possa fare ricerca - continua Dominici - Quindi la salute va ripensata, servirebbe una “democratizzazione regolata”, in cui se il dato viene usato per fare ricerca deve essere accessibile. Se invece è a fine di lucro allora il discorso cambia. È un mondo ancora da definire, in fondo i data science sono una nuova disciplina, un laboratorio di ricerca che impara su stesso». Ma la vera transizione si avrà con la real world evidence per confrontare gli effetti dei farmaci.
«Con la possibilità di combinare varie fonti di informazioni stiamo arrivando ad avere risultati attendibili come negli studi randomizzati, ma in minor tempo, a minori costi e su popolazioni rappresentative» sottolinea Dominici - Perché la nostra salute è influenzata da tanti fattori e quindi quando si considera una healthcare strategy, come un nuovo farmaco sul mercato, abbiamo la possibilità - e anche la responsabilità - di tener conto del fatto che l’efficacia di quella terapia è influenzata da tantissime cose (aria, alimentazione, attività fisica…) e sono informazioni che possiamo misurare».
Quando ha capito che i numeri potevano risolvere problemi importanti? «La passione per i numeri l’ho sempre avuta, fin da bambina perché per me la matematica era un gioco, poi crescendo mi sono resa conto che i numeri potevano avere un impatto trasformativo sulle leggi e lo stato di salute delle persone. E con la tecnologia è arrivata la rivoluzione dei big data, e si è aperto un mondo». Che l’ha portata ad avvicinarsi ai cambiamenti climatici e a condurre una ricerca fondamentale nella quale ha rivelato la connessione tra inquinanti atmosferici e ospedalizzazione, costringendo l’Agenzia per la protezione ambientale Usa a rivederne i livelli. «Un lavoro enorme - racconta Dominici - abbiamo stimato il livello quotidiano degli inquinanti che ogni americano sopra i 65 anni ha respirato negli ultimi 20 anni. Ben 480 miliardi di informazioni all’anno...». Ma la biostatista italiana fa presente che oggi nel mondo dei data science possiamo imparare anche dall’uso del cellulare, misurando tutti i fattori di rischio e come interagiscono tra loro, compreso l’aspetto delle relazioni sociali. Quest’area di studio viene chiamata digital phenotyping, dove attraverso le app si possono prevenire le malattie. Al momento vengono impiegate sui disturbi mentali, dal disturbo bipolare al tumore al cervello. Arrivando a fare una classificazione della malattia sulla base dei cellulari.
Dai pazienti alle popolazioni. Mentre l’attenzione della ricerca di oggi è sulla salute individuale, l’attenzione di domani sarà sulla salute della popolazione. La fenotipizzazione digitale potrebbe per esempio essere utilizzata per aiutare i sistemi sanitari a prevedere dove e che tipo di servizi sono richiesti per aumentare la salute generale della popolazione e gestire meglio i costi con capacità predittive (sull’incidenza delle malattie, dei rischi, nell’abbattere i costi degli screening periodici realizzando solo quelli necessari...)
«I dati sono una miniera d’oro per la medicina, il vero potenziale di progresso - ha aggiunto Carlo Salvioni, vice presidente strategy and operations di Iqvia Italia - La grande mole di dati, che potrebbe essere messa a sistema, è di enorme valore per la salute pubblica. Le informazioni sono la vera risorsa per capire le patologie, la loro progressione, saperle diagnosticare e prevenire. Inoltre i dati ci aiutano a mettere a punto e ottimizzare le terapie. Ma purtroppo, in Italia, su questo si è molto indietro».
«Il vero ostacolo - conclude Sergio Liberatore, amministratore delegato di Iqvia Italia - è culturale, non tecnologico, né economico. Per esempio, bisogna superare le resistenze tra centri di ricerca o il rifiuto da parte di alcune Regioni di condividere i dati rigorosamente anonimizzati dei pazienti. I dati rappresentano una leva straordinaria inimmaginabile fino a pochi anni fa. È ora di cambiare paradigma, perché è fondamentale capire che la condivisione dei dati è il futuro e che non si può limitare lo sviluppo della conoscenza».