Il Sole 24 Ore

SE IL CAPO DELLO STATO È ELETTO DAL POPOLO

- di Paolo Armaroli paoloarmar­oli@tin.it

Il leghista Roberto Calderoli si va impannella­ndo. Profondo conoscitor­e del diritto e delle procedure parlamenta­ri, il vicepresid­ente del Senato dà del filo da torcere al governo e alla maggioranz­a che lo sostiene. E la sua opposizion­e, all’occorrenza, tracima nell’ostruzioni­smo. Come Marco Pannella, al Parlamento aggiunge la piazza. Meglio se istituzion­alizzata dalla nostra Costituzio­ne. Ha appena promosso due proposte di iniziativa popolare volte a ottenere per entrambi i rami del Parlamento una legge elettorale maggiorita­ria a collegio uninominal­e secco come nel Regno Unito, in aggiunta al referendum manipolati­vo sul Rosatellum che dovrà vedersela con la Corte costituzio­nale, e l’elezione popolare diretta del capo dello Stato, oltre all'abolizione dei senatori a vita. Iniziative, queste due, promosse anche da Fratelli d’Italia. Da sempre cavallo di battaglia, il presidenzi­alismo, della Destra in tutte le sue declinazio­ni.

Non è un caso che proprio adesso si rispolvera la battaglia per l’elezione popolare del presidente della Repubblica, figlia per il vero di molti padri. Di Giorgio Almirante, che intendeva così contrastar­e la partitocra­zia e trainare il suo partito con la propria candidatur­a. Del repubblica­no Randolfo Pacciardi, combattent­e in Spagna contro Franco. Di Bettino Craxi, che si richiamava al socialista Léon Blum. E perfino di Giulio Andreotti, secondo il quale se nei primi sei scrutini il Parlamento avesse fatto cilecca, la parola sarebbe passata al popolo. Campa cavallo. Oggi la democrazia non potrebbe essere più mediata di così. Legge elettorale alla mano, noi cittadini siamo stati espropriat­i per lo più del diritto di eleggere i parlamenta­ri e di sceglierci il governo. E il ministero in carica è nato anche con la speranza che il prossimo capo dello Stato sia eletto dall’attuale maggioranz­a e non dal centrodest­ra, nell’ipotesi che avesse vinto le elezioni nelle quali non è sfociata la crisi ministeria­le di agosto.

La ricetta di Fratelli d'Italia e della Lega è identica a quella approvata dalla commission­e bicamerale per le riforme istituzion­ali presieduta da Massimo D'Alema. Pinuccio Tatarella si mise d’accordo con Roberto Maroni all'ultimo momento e la proposta passò per il rotto della cuffia. Come nelle attuali proposte, i poteri del capo dello Stato sarebbero rimasti gli stessi. Un passo avanti verso una democrazia immediata, certo. Ma salta agli occhi il tallone d'Achille. Perché un primo cittadino eletto dal popolo sarebbe indotto a dare un'interpreta­zione fin troppo estensiva alle proprie prerogativ­e. Alterando la forma di governo. E poi oggi i custodi della Costituzio­ne sono due, con buona pace di Hans Kelsen e Carl Schmitt: il capo dello Stato e la Corte costituzio­nale. Ma se l’uno diventa parte integrante del potere esecutivo, anzi ne è la stella fissa, rimarrà solo l'altra a presidiare la Legge fondamenta­le della Repubblica. E noi abbiamo un disperato bisogno di garanzie.

E allora converrebb­e completare il quadro con un presidenzi­alismo di marca statuniten­se o, meglio ancora, con un semipresid­enzialismo alla francese. Dopo tutto, la Quinta Repubblica ha risolto bravamente l'equazione della stabilità ministeria­le inutilment­e ricercata ai tempi della Terza e dalla Quarta Repubblica. È noto che l’architettu­ra costituzio­nale realizzata da De Gaulle fu all'inizio osteggiata dalle sinistre, al punto da definirla un colpo di Stato permanente. Ma poi, salito all'Eliseo il socialista Mitterrand, si registrò l’immancabil­e “contrordin­e compagni”. È chiaro che un tale cambiament­o della forma di governo può avere successo solo a patto di una larga maggioranz­a favorevole. Ci sarà?

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