SE IL CAPO DELLO STATO È ELETTO DAL POPOLO
Il leghista Roberto Calderoli si va impannellando. Profondo conoscitore del diritto e delle procedure parlamentari, il vicepresidente del Senato dà del filo da torcere al governo e alla maggioranza che lo sostiene. E la sua opposizione, all’occorrenza, tracima nell’ostruzionismo. Come Marco Pannella, al Parlamento aggiunge la piazza. Meglio se istituzionalizzata dalla nostra Costituzione. Ha appena promosso due proposte di iniziativa popolare volte a ottenere per entrambi i rami del Parlamento una legge elettorale maggioritaria a collegio uninominale secco come nel Regno Unito, in aggiunta al referendum manipolativo sul Rosatellum che dovrà vedersela con la Corte costituzionale, e l’elezione popolare diretta del capo dello Stato, oltre all'abolizione dei senatori a vita. Iniziative, queste due, promosse anche da Fratelli d’Italia. Da sempre cavallo di battaglia, il presidenzialismo, della Destra in tutte le sue declinazioni.
Non è un caso che proprio adesso si rispolvera la battaglia per l’elezione popolare del presidente della Repubblica, figlia per il vero di molti padri. Di Giorgio Almirante, che intendeva così contrastare la partitocrazia e trainare il suo partito con la propria candidatura. Del repubblicano Randolfo Pacciardi, combattente in Spagna contro Franco. Di Bettino Craxi, che si richiamava al socialista Léon Blum. E perfino di Giulio Andreotti, secondo il quale se nei primi sei scrutini il Parlamento avesse fatto cilecca, la parola sarebbe passata al popolo. Campa cavallo. Oggi la democrazia non potrebbe essere più mediata di così. Legge elettorale alla mano, noi cittadini siamo stati espropriati per lo più del diritto di eleggere i parlamentari e di sceglierci il governo. E il ministero in carica è nato anche con la speranza che il prossimo capo dello Stato sia eletto dall’attuale maggioranza e non dal centrodestra, nell’ipotesi che avesse vinto le elezioni nelle quali non è sfociata la crisi ministeriale di agosto.
La ricetta di Fratelli d'Italia e della Lega è identica a quella approvata dalla commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema. Pinuccio Tatarella si mise d’accordo con Roberto Maroni all'ultimo momento e la proposta passò per il rotto della cuffia. Come nelle attuali proposte, i poteri del capo dello Stato sarebbero rimasti gli stessi. Un passo avanti verso una democrazia immediata, certo. Ma salta agli occhi il tallone d'Achille. Perché un primo cittadino eletto dal popolo sarebbe indotto a dare un'interpretazione fin troppo estensiva alle proprie prerogative. Alterando la forma di governo. E poi oggi i custodi della Costituzione sono due, con buona pace di Hans Kelsen e Carl Schmitt: il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Ma se l’uno diventa parte integrante del potere esecutivo, anzi ne è la stella fissa, rimarrà solo l'altra a presidiare la Legge fondamentale della Repubblica. E noi abbiamo un disperato bisogno di garanzie.
E allora converrebbe completare il quadro con un presidenzialismo di marca statunitense o, meglio ancora, con un semipresidenzialismo alla francese. Dopo tutto, la Quinta Repubblica ha risolto bravamente l'equazione della stabilità ministeriale inutilmente ricercata ai tempi della Terza e dalla Quarta Repubblica. È noto che l’architettura costituzionale realizzata da De Gaulle fu all'inizio osteggiata dalle sinistre, al punto da definirla un colpo di Stato permanente. Ma poi, salito all'Eliseo il socialista Mitterrand, si registrò l’immancabile “contrordine compagni”. È chiaro che un tale cambiamento della forma di governo può avere successo solo a patto di una larga maggioranza favorevole. Ci sarà?