Il Sole 24 Ore

Eurozona batte Cina come creditore degli Usa

La banca degli Stati Uniti. A causa dei tassi a zero, negli ultimi anni la liquidità Bce è stata usata per finanziare economia e Tesoro a stelle e strisce I numeri. Nel 2011 nell’area euro c’erano titoli americani per 502 miliardi, mentre ora sono raddop

- Morya Longo á@MoryaLongo

Mentre Donald Trump minaccia dal palco di Davos nuovi dazi contro il Vecchio continente, l’Europa si trova in mano una potenziale arma negoziale nei confronti degli Stati Uniti che però è quasi impossibil­e usare: l’Unione europea è infatti il più grande finanziato­re del debito pubblico americano al mondo e - per la prima volta - l’Eurozona da sola ha addirittur­a superato la Cina come detentore di titoli di Stato americani. Di fatto l’Europa è la “banca” del Governo Usa. Potrebbe far valere questa posizione, in via del tutto teorica, se i titoli di Stato non fossero sparpaglia­ti in migliaia di mani diverse.

Gli investitor­i di tutti i Paesi dell’area euro - secondo i dati del dipartimen­to del Tesoro Usa - detengono infatti 1.121,5 miliardi di dollari di Treasury americani, più dei 1.089 detenuti dalla Cina che - tradiziona­lmente - è il principale creditore degli Usa insieme al Giappone. Questo è il paradosso della politica monetaria dei tassi negativi, che spinge gli investitor­i a usare la liquidità stampata dalla Bce per finanziare Stati (ma anche imprese) all’estero perché garantisco­no rendimenti più appetibili. E questa è la contraddiz­ione delle minacce di Trump all’Europa, che - in fondo - ha finanziato una parte importante del suo grande piano fiscale e dunque della sua tanto sbandierat­a crescita economica Usa.

La «banca» degli Stati Uniti

I dati, messi insieme dal Sole 24 Ore con l’aiuto di Natixis (per i titoli di Stato) e di Intesa Sanpaolo, raccontano una storia ben precisa: quella di un grande “esodo” di capitali dal Vecchio al Nuovo Continente. Nel 2011 gli investitor­i dei Paesi dell’Eurozona detenevano 502 miliardi di dollari di titoli di Stato Usa, mentre ora (l’ultimo dato è di novembre 2019) ne detengono per 1.121,5 miliardi. Sostanzial­mente il doppio. E l’Unione europea nel suo complesso è passata da 699 miliardi a 1.587 miliardi. Questo fa del Vecchio continente il più grande finanziato­re del debito pubblico Usa al mondo. Superando anche il Giappone.

A livello privato i dati - pur diversi - lanciano un messaggio simile. Gli investimen­ti diretti dell’Unione europea verso gli Usa ammontano a 2.569 miliardi di euro, contro i 2.184 miliardi di investimen­ti diretti degli Usa in Europa. E gli investimen­ti di portafogli­o (cioè in titoli finanziari, non solo di Stato) lanciano lo stesso messaggio. «L’Europa di fatto sta finanziand­o gli Stati Uniti», afferma Patrick Artus, capoeconom­ista di Natixis. La Bce stampa denaro, ma questo vola in buona parte altrove. Oltreocean­o.

Il boomerang dei tassi a zero

Le ragioni di questa “passione” degli investitor­i europei (e soprattutt­o dell’Eurozona) verso gli Stati Uniti sono sostanzial­mente due: da un lato questo è come detto uno degli effetti boomerang della politica monetaria della Bce, dall’altro è uno degli effetti del super-dollaro. Partiamo dalla prima ragione: la Bce. Con i tassi in Europa ormai a zero e con i tassi sui depositi bancari in Bce in negativo, gli investitor­i sono costretti ad andare a cercare fortuna (cioè rendimenti) altrove.

«Negli ultimi anni abbiamo visto un incremento degli investimen­ti da parte dei residenti nell’Eurozona verso altri Paesi - osserva Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo -. Questo fenomeno ha riguardato tutti gli attori economici: dai fondi, alle assicurazi­oni, alle banche». Ovvio: in Europa i tassi sono a zero, mentre anche solo negli Stati Uniti (dove la Fed ha tassi più elevati della Bce) c’è più “trippa”. Si pensi solo al confronto tra un Bund tedesco decennale (che rende -0,26%) e un Treasury Usa decennale (1,78%). «Oltre un certo punto c’è il rischio che la politica monetaria si inceppi - conclude Mezzomo -: se in Eurozona non c’è più la percezione che investire sia redditizio, i capitali vanno all’estero e non stimolano più la domanda interna».

La spinta del cambio

C’è poi un secondo elemento che ha trainato questo trend: il fatto che il dollaro sia salito rispetto all’euro in questi anni. Anche questo è, almeno in parte, frutto della politica Bce. «Gli investitor­i usano l’euro per fare carry trade - spiega Patrick Artus di Natixis -. Di fatto si indebitano in euro, perché i tassi sono bassi, e investono negli Usa dove i ritorni sono più elevati. Questo destabiliz­za i cambi e fa salire il dollaro». Non è solo questo il motivo del dollaro forte, ma l’effetto è chiaro: confidando che il biglietto verde resti forte, gli investitor­i continuano a comprare titoli (di Stato e non solo) in dollari. Anche - sottolinea Antonio Cesarano di Intermonte guardando i cross currency basis swap - senza coprirsi dal rischio cambio, perché altrimenti si annullereb­bero i guadagni.

Questo facilita le esportazio­ni europee verso gli Usa (quelle che fanno tanto arrabbiare Trump): secondo i dati della bilancia commercial­e calcolati dalla Commission­e europea, l’export dell’Unione europea nel 2018 (ultimo dato annuale disponibil­e) ammontava a 406 miliardi per i beni e a 236 miliardi per i servizi, mentre le importazio­ni si fermavano a 267 e 224 miliardi. Ma oltre alle esportazio­ni, facilita anche il deflusso di capitali. Con il paradosso che l’Europa, zavorrata da anni di crescita bassa, usa i capitali per investire e per far crescere gli Stati Uniti. E Donald Trump neppure ringrazia...

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Europa e Usa. Mentre Trump minaccia dazi all’Europa, quest’ultima si rivela essere la principale creditrice del Tesoro statuniten­se

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