I TENTATIVI DI SCACCIARE LA PROFEZIA DELLA FINE
«Non è finita», ha ripetuto Di Maio nel suo discorso di addio. In realtà è questa la domanda per il Movimento, se la storia si stia davvero per concludere, come prevedono alcuni, oppure se c’è una strada, un modo per sopravvivere. L’orientamento prevalente, ma non unanime, dice che il primum vivere - oggi - per i 5 Stelle sia tutto concentrato sul Governo e su Conte. Quello del premier è l’unico nome che l’ormai ex capo politico ha fatto nel suo intervento – oltre quello di Mattarella – così come ha ribadito che l’Esecutivo va avanti. Dunque è questo il calcolo. Tenere in vita il più possibile il Conte II e nel frattempo tentare una rifondazione dandosi un profilo più competente, meno improvvisato, meno populista anche attraverso la figura di una nuova guida che molti identificano in Stefano Patuanelli, attuale ministro dello Sviluppo economico.
«Non basta dire cosa vogliamo fare ma anche in quanto tempo si può riuscire a fare». E poi «sappiamo di aver deluso ma governare è complicato» e anche «gestire un Movimento diviso ed eterogeneo è complesso». Stralci di frasi pronunciate ieri dall’ex leader di un Movimento che esaltava l’inesperienza come valore. Ma se già questa è una svolta non basta a togliere di mezzo la profezia della fine. Quella non smetterà di aleggiare, anzi forse si rafforzerà dopo il voto in Emilia, perché ritrovare una connessione con gli elettori è un'impresa. Il primo riflesso è quello di arroccarsi ed è l'opzione scelta dagli strateghi pentastellati che davanti al bivio di staccare la spina a Conte e tornare a essere quelli di una volta, preferiscono restare al Governo e tentare di auto-riformarsi nei prossimi tre anni di legislatura. Una scelta coraggiosa. E non solo perché le previsioni in politica non funzionano più ma soprattutto perché la decisione è maturata all’interno di una classe dirigente che non vuole abbandonare la vita da parlamentare o ministro. È chi è approdato nelle istituzioni che sostiene la tesi “governista” affrontando le critiche malevole di chi ora – come loro un tempo – li accusa di “poltronismo”.
Sta anche qui il rischio di avverare la profezia della fine: non riuscire a governare, rinviare le decisioni o dividersi – come accade spesso – ma voler restare alla guida del Paese. Questo è quello che crea una distanza con gli elettori. E nelle stesse condizioni si trova Zingaretti che insieme a Gentiloni avrebbe preferito andare al voto in agosto piuttosto che far nascere il Conte II ma, a questo punto, non può che andare avanti per non consegnarsi a una sconfitta sicura e forse disastrosa. Serve quindi non solo trovare l’amalgama dentro i 5 Stelle ma pure fa funzionare meglio l’alleanza che finora non è decollata.
È vero che per il Pd e il suo segretario i conti si faranno dopo il voto in Emilia ma intanto c'è Salvini che cerca di buttare giù il portone di Palazzo Chigi. Anche se è piuttosto paradossale che proprio il capo leghista, primo artefice della crisi del Movimento e Di Maio, dica sia stato «il signor Grillo che ha portato alla fine i 5 stelle».