«Inaccettabile l’interdittiva antimafia mutilata»
Parla il presidente della terza sezione del Consiglio di Stato
Non è usuale che i giudici del Consiglio di Stato utilizzino le sentenze per rivolgere un appello al legislatore. Quando accade è perché ritengono che il sistema normativo zoppichi e abbia bisogno di una riforma. Come nel caso del codice antimafia e delle interdittive che fino al 2018 potevano interessare anche i contratti tra privati, mentre ora si possono richiedere solo quando in ballo c’è la pubblica amministrazione (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri).
«Nel 2018 il Parlamento - spiega Franco Frattini, presidente della terza sezione del Consiglio di Stato - ha cancellato la parte della norma che prevedeva le interdittive antimafia anche nei rapporti tra privati. Difficile dire perché l’abbia fatto: negli atti parlamentari non si trova spiegazione».
I nodi sono venuti al pettine con la recente sentenza 452 della terza sezione (relatore Giulia Ferrari)? Sì. Non abbiamo potuto che constatare che quanto possibile fino a due anni fa ora non lo era più. E per questo abbiamo dedicato una pagina della decisione a rivolgere un appello al legislatore perché ripristini quella norma e ridia compiutezza al sistema. Lo abbiamo fatto perché l’antimafia è una materia sensibile, di rilevante interesse pubblico.
Ma in passato c’erano stati problemi di carattere giuridico nell’applicare la norma prima che venisse “mutilata”?
Assolutamente no. Era pacifico che anche nei rapporti tra privati si potesse fare ricorso all’interdittiva antimafia. Si trattava di una misura che, insieme ad altre, ha permesso di far emergere diverse situazioni compromesse con la malavita. E questo anche grazie all’applicazione rigorosa del codice antimafia che è stata fatta attraverso la giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Non senza critiche. Vi hanno accusato di essere troppo rigidi.
Ci siamo sentiti anche dire che con le nostre sentenze condanniamo le imprese all’ergastolo. Ma non è così. Intanto, perché ci sono molti casi di aziende che, dopo aver ricevuto un’interdittiva, si sono “ripulite” e hanno avuto dal prefetto il via libera a essere inserite nella white list. Eppoi perché le nostre sentenze hanno delimitato il perimetro del codice.
Abbiamo, per esempio, chiarito che per far scattare l’interdittiva non basta il rapporto di parentela del titolare dell’impresa con un mafioso, ma occorrono anche altre circostanze, come l’esistenza di compartecipazioni economiche o una reale vicinanza tra i due. Abbiamo, inoltre, precisato che l’interdittiva può riguardare, oltre ai contratti, anche le concessioni, come una Scia o una licenza di esercizio. Certo, abbiamo anche ribadito che la misura determina l’incapacità giuridica dell’impresa per il tempo di validità dell’interdittiva.
Tutto questo con quali risultati? Le regole del codice hanno permesso di far emergere i fenomeni di infiltrazione mafiosa al Nord. Emblematico è il caso della conferma, da parte del Consiglio di Stato, dello scioglimento per mafia di Brescello, il comune in provincia di Reggia Emilia dove sono state ambientate le vicende di Peppone e Don Camillo.
Anche alla luce di ciò, dunque, il taglio al codice resta incomprensibile? Sì. La stessa Avvocatura dello Stato non ha depositato, nella causa appena decisa, difese scritte. C’era, probabilmente, imbarazzo a perorare una tesi che si presenta indifendibile. Non c’è, ripeto, alcun dubbio che ora l’interdittiva antimafia sia preclusa nei rapporti tra privati. Basterebbe ripristinare un inciso e il sistema riacquisterebbe tutta la sua efficacia.