UN RICHIAMO GIUSTO E CONDIVISIBILE MA LA STRADA NON È PERCORRIBILE
Innocenzo Cipolletta si chiede in un articolo importante apparso su questo giornale se, per cominciare ad affrontare la situazione del nostro debito pubblico, non sia il caso di replicare oggi l’imposta sull’Europa introdotta poco più di 20 anni fa dal governo Prodi e in particolare dal ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi. In quella circostanza nel dicembre 1996 venne introdotta, con un decreto legge, un’imposta progressiva sui redditi da pagarsi nell’esercizio finanziario 1997 con l’impegno di procedere successivamente (come poi avvenne) a una sua parziale restituzione.
Le differenze con quella vicenda sono tali da sconsigliare di ripetere oggi l’esperimento. Intanto allora l’obiettivo era preciso e circoscritto: poiché la decisione se ammettere o no l’Italia alla terza fase dell’Unione monetaria europea dal 1° gennaio 1999 sarebbe stata presa nel maggio del 1998 sulla base dei dati di consuntivo del 1997, si trattava di ridurre il deficit di bilancio di un solo esercizio finanziario. Era quindi credibile l’impegno a non ripetere il prelievo e fu anche possibile restituire parte dell’imposta percepita perché l’aspettativa di un ingresso nell’Ume consentì una drastica riduzione dei tassi di interesse e quindi degli oneri sul debito pubblico.
In secondo luogo la grande credibilità personale di Ciampi, che aveva solo da poco lasciato la Banca d’Italia, contribuì a limitare le polemiche sull’iniziativa. E infine in quel periodo il richiamo europeo era ancora molto forte nell’opinione pubblica italiana: un sacrificio per “entrare” in Europa appariva come uno sforzo giustificato sul piano razionale.
Nessuna di quelle condizioni è presente oggi: non c’è un obiettivo da rispettare entro una certa data; non vi è una personalità indiscussa che possa garantire la giustezza del sacrificio e soprattutto non c’è più un consenso sull’Europa così largo e indiscusso da poter giustificare un sacrificio per rispettare gli impegni che ci vengono chiesti da Bruxelles. E infine, è vero che un miglioramento del saldo di bilancio potrebbe far scendere lo spread – come scrive Cipolletta – ma il risparmio di interesse non sarebbe così massiccio da garantire di per sé la possibilità di una restituzione almeno parziale dell’imposta. Infine, è talmente diffusa la sensazione che la pressione fiscale in Italia sia molto elevata che l’annuncio stesso di un nuovo prelievo potrebbe dar luogo a un ulteriore effetto deflattivo nel momento in cui già per suo conto l’economia tende ad andar male.
Dunque la strada di Cipolletta non appare percorribile. Ma il suo richiamo è sacrosanto e sarebbe
LA VITA MEDIA DEL DEBITO DEVE CRESCERE POI SERVONO INVESTIMENTI E DISMISSIONI
sbagliato non aprire una discussione sul da farsi. Va detto con chiarezza che un rapporto elevato e crescente del rapporto fra debito e reddito presenta rischi concreti. Non c’è un livello di quel rapporto oltre il quale si determina una crisi, ma la crisi può essere innescata da qualsiasi turbolenza economica o politica, interna o internazionale. Il debito pubblico è sostenibile finché viene ritenuto tale. Può cessare di colpo di essere sostenibile quando nascono dei dubbi sulla sua sostenibilità.
Questo vuol dire che non sono indispensabili misure forti e concentrate nel tempo – come avvenne al tempo del governo Monti – ma questo è vero solo se si definisce una strategia più graduale che però cominci a operare da subito. Più che a una singola misura bisogna immaginare un insieme coordinato di interventi. Essi devono comprendere:
1
la cessione di elementi del patrimonio pubblico per cominciare a realizzare una prima discesa del rapporto senza far ricorso a prelievi fiscali che avrebbero di per sé effetti deflazionistici;
2
una riorganizzazione del bilancio dello stato che consenta di sostituire spese correnti con spese di investimento il cui effetto sul reddito nazionale è ovviamente maggiore che quello delle spese correnti; 3 ristrutturazioni volontarie del debito pubblico con l’obiettivo di allungarne la vita media e rendere minori le emissioni annuali per il rinnovo dei titoli in scadenza.
Solo in questo quadro possono essere individuate delle limitate misure fiscali che non incidano sulla domanda in generale e che forse possano essere utilizzate per finanziare degli sgravi fiscali sugli investimenti.
In sostanza, l’Italia ha bisogno di un programma pluriennale che stabilisca obiettivi finali per la crescita, gli investimenti, il bilancio dello stato, il debito pubblico e tappe intermedie che consentano controllo e aggiustamenti in corso d’opera. In questi anni i governi hanno evitato di assumere impegni di questo tipo, preferendo sentirsi legati e dichiararsi costretti a seguire delle linee stabilite dalle autorità europee. È venuto il momento di uscire da questa logica e decidere che l’Italia si pone l’obiettivo di risolvere con le proprie forze e senza obblighi esterni i propri problemi. La parola “piano” – per esempio il piano Pandolfi – meriterebbe di essere riscoperta. Sarebbe un modo per costringere le forze politiche e sociali e l’opinione pubblica ad allungare lo sguardo al di là del brevissimo periodo e a giudicare l’azione dei governi lungo un arco di tempo più consistente.