Resta debole il coordinamento tra il governo e le Regioni
Aquasi due mesi dalla delibera dello stato di emergenza da parte del Governo, con il decretolegge approvato ieri si può dire che si chiude la prima fase della gestione dell'emergenza causata dal coronavirus.
La prova di ciò sembra emergere da due elementi. Da un lato, da quanto esposto dal Presidente del Consiglio, sia nella conferenza stampa di martedì scorso, sia nell'informativa urgente alla Camera di ieri; e, dall'altro, dal contenuto del decreto legge appena pubblicato che, innanzitutto, sistematizza e fa ordine all'interno dei numerosi e diversi tipi di provvedimenti emanati in queste settimane. In questo modo, i molti atti di secondo grado adottati si vengono a tipizzare in fonti di rango primario, e si sanano pure molte aporie; evitando, al tempo stesso, pro-futuro, anche precedenti poco in linea con la nostra tradizione costituzionale.
Eppure, alla positiva ed assai utile sistematizzazione della disciplina dell'emergenza nel sistema delle fonti, ha solo in parte corrisposto, invece, una migliore definizione dei rapporti tra il Governo e le autonomie - a partire da quelle regionali - nella gestione presente e futura dell'emergenza. Il testo del decreto, infatti, sembra non dare giusto peso, soprattutto nell'attuazione delle misure di contenimento delineate dall'art. 2, e poi nelle misure urgenti di carattere regionale o infra-regionale delineate all'art. 3, alla complessità dell'articolazione della dimensione territoriale del potere nel nostro ordinamento, limitandosi a prevedere un coinvolgimento molto debole delle Regioni, che debbono essere “sentite”, anziché coinvolte con la più forte previsione dell'intesa. Così come, del pari, il testo non prevede alcun coinvolgimento della Conferenza unificata che, invece, andrebbe coinvolta tenuto conto del ruolo che stanno svolgendo sui territori i sindaci con le loro ordinanze (le quali comunque debbono attenersi ai limiti definiti dagli atti normativi regionali e statali, a pena di inefficacia). Non basta dunque che sia stata stabilita - opportunamente, lo si ribadisce – una costruzione normativa dell'emergenza sul piano della gerarchia delle fonti, ma sarebbe servita, del pari, anche una più chiara sistematizzazione delle dinamiche inter-istituzionali tra lo Stato e le Regioni; non da ultimo perché la diversa gravità delle situazioni sul territorio in relazione all'emergenza può giustificare correttamente una diversa regolazione territoriale (quel che ha senso in Lombardia può non averlo in Basilicata).
Invece, proprio l’art. 3 del decreto prevede che l'asimmetria territoriale dell'intervento, per il tramite di ulteriori misure restrittive, possa avvenire da parte delle Regioni «nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri», delineando quindi un chiaro favor per le scelte del Governo. Eppure, a ben vedere, nel rispetto dei reciproci ambiti, l'equi-ordinazione tra Regioni e Stato è uno dei cardini che qualifica proprio il Titolo V; e che, a maggior ragione di fronte all'assenza di una clausola di supremazia nell'art. 117 della Costituzione, abbisogna di essere alimentato da un forte dialogo basato sui principi di leale cooperazione, di proporzionalità e di sussidiarietà.
La scelta che si fa nel decreto, insomma, è quella di un coordinamento debole tra lo Stato e le Regioni. Forse troppo debole se si tiene conto di quanta unità, condivisione e fiducia reciproca sembra essere necessaria, invece, per sconfiggere oggi questo virus.