L’EUROPA AL GIRO DI BOA
«Quando si contano i morti, non si contano i miliardi», taglia corto un diplomatico europeo. In queste ore l’Europa si gioca il proprio destino in Italia, sul coraggio o meno di riconoscere che il Covid-19 è il grande livellatore che non guarda in faccia a nessuno.
Insensibile a vizi e virtù dei Paesi che colpisce: la sua falce costringe all’unità perché, volenti o nolenti, siamo tutti nella stessa barca, la sua. Ma quando c’è un’Unione legata da logiche contabili più che da un vero spirito di corpo, quando uno shock esterno e simmetrico si scontra con la mutua sfiducia interna, è difficile cambiare i paradigmi di pensiero: per i più ricchi e disciplinati del club è quasi istintivo guardare più ai miliardi che ai feretri, specie se altrui.
Se poi nell’occhio del ciclone c’è l’Italia, terza economia dell’euro, debito astronomico e crescita minima da anni, credibilità fragile e per di più unico partner dell’Eurozona che non si sia ristrutturato sotto il pungolo dei programmi di aiuti e riforme europei, come Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, semplicemente perché finora è riuscito a evitarli, si fa ancora più faticoso il salto collettivo verso una solidarietà nuova e rivoluzionaria ma vitale per la sopravvivenza europea.
Intendiamoci, l’emergenza pandemica ha già travolto gli argini di regole intoccabili con la storica sospensione del patto di stabilità, deficit e debito temporaneamente senza paletti, con gli aiuti di Stato quasi liberi per imprese e lavoratori, con la pioggia di fondi Ue per 37 miliardi. E il bazooka della Bce da oltre 1.000 miliardi diretti a Stati membri, banche e imprese.
Ma tutto questo non basta perché dovunque i costi umani del contagio hanno costi economici e sociali proibitivi e insostenibili, soprattutto per i Paesi più indebitati. Agire in fretta, avverte Mario Draghi, per evitare che «la recessione diventi depressione» e «i costi dell’esitazione diventino irreversibili». L’allarme suona pesante.
Dopo il congelamento delle regole comuni e l’esplosione in arrivo del debito pubblico, è la mutualizzazione dei rischi il grande tabù che divide i leader Ue al vertice.
Niente di nuovo, questo è il problema, nel braccio di ferro tra i Paesi del Nord e del Sud: sull’uso del Mes, il fondo salva-Stati, per erogare prestiti e sull’emissione di corona-bond. Emergenza o no, i primi, con la Germania più possibilista, intendono concederli solo su stretta condizionalità ma dicono no a ogni forma di euroobbligazioni. I secondi, Italia, Francia e Spagna con Belgio, Lussemburgo, Portogallo, Grecia, Irlanda e Slovenia chiedono esattamente il contrario.
Prima o poi si troverà un compromesso perché il virus morde e qualsiasi alternativa sarebbe peggiore, con costi geopolitici ben maggiori. Anni fa durante i negoziati di Maastricht, l’Italia sempre al centro delle ansie generali, chiesi a un membro della Bundesbank il perché di tanta attenzione su di noi e non su altri: «A differenza della Grecia, l’Italia da sola sarebbe in grado di rovesciare la barca dell’euro», mi rispose.
Trent’anni dopo siamo ancora lì, la nostra precarietà che spaventa, lo stesso dilemma dei nostri partner. L’Italia è “too big to fail” ma anche “too big to save” e comunque non con i soldi degli altri, cosa peraltro mai successa finora.
Però guardando al dopo-virus e all’iper-debito in agguato, delle due l’una: o faremo serie riforme strutturali capaci di sgessare l’economia e rendere sostenibile il nostro debito, o dovremo accettare gli aiuti dell’Europa alle sue condizioni. Nessun prestito è gratis e nemmeno la neutralità dei mercati.
Meglio allora puntare all’autoriforma per un’Italia e un’Unione migliori. Perché sono anche i nostri ritardi a rallentare la rinascita europea: il colmo per un Governo europeista.
È anche il nostro ritardo nel rendere sostenibile il debito pubblico a rallentare la rinascita dell’Unione
La Ue attiverà una linea di credito per dare assistenza ai Paesi membri sotto forma di prestiti