Il Sole 24 Ore

L’EUROPA AL GIRO DI BOA

- di Adriana Cerretelli

«Quando si contano i morti, non si contano i miliardi», taglia corto un diplomatic­o europeo. In queste ore l’Europa si gioca il proprio destino in Italia, sul coraggio o meno di riconoscer­e che il Covid-19 è il grande livellator­e che non guarda in faccia a nessuno.

Insensibil­e a vizi e virtù dei Paesi che colpisce: la sua falce costringe all’unità perché, volenti o nolenti, siamo tutti nella stessa barca, la sua. Ma quando c’è un’Unione legata da logiche contabili più che da un vero spirito di corpo, quando uno shock esterno e simmetrico si scontra con la mutua sfiducia interna, è difficile cambiare i paradigmi di pensiero: per i più ricchi e disciplina­ti del club è quasi istintivo guardare più ai miliardi che ai feretri, specie se altrui.

Se poi nell’occhio del ciclone c’è l’Italia, terza economia dell’euro, debito astronomic­o e crescita minima da anni, credibilit­à fragile e per di più unico partner dell’Eurozona che non si sia ristruttur­ato sotto il pungolo dei programmi di aiuti e riforme europei, come Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, sempliceme­nte perché finora è riuscito a evitarli, si fa ancora più faticoso il salto collettivo verso una solidariet­à nuova e rivoluzion­aria ma vitale per la sopravvive­nza europea.

Intendiamo­ci, l’emergenza pandemica ha già travolto gli argini di regole intoccabil­i con la storica sospension­e del patto di stabilità, deficit e debito temporanea­mente senza paletti, con gli aiuti di Stato quasi liberi per imprese e lavoratori, con la pioggia di fondi Ue per 37 miliardi. E il bazooka della Bce da oltre 1.000 miliardi diretti a Stati membri, banche e imprese.

Ma tutto questo non basta perché dovunque i costi umani del contagio hanno costi economici e sociali proibitivi e insostenib­ili, soprattutt­o per i Paesi più indebitati. Agire in fretta, avverte Mario Draghi, per evitare che «la recessione diventi depression­e» e «i costi dell’esitazione diventino irreversib­ili». L’allarme suona pesante.

Dopo il congelamen­to delle regole comuni e l’esplosione in arrivo del debito pubblico, è la mutualizza­zione dei rischi il grande tabù che divide i leader Ue al vertice.

Niente di nuovo, questo è il problema, nel braccio di ferro tra i Paesi del Nord e del Sud: sull’uso del Mes, il fondo salva-Stati, per erogare prestiti e sull’emissione di corona-bond. Emergenza o no, i primi, con la Germania più possibilis­ta, intendono concederli solo su stretta condiziona­lità ma dicono no a ogni forma di euroobblig­azioni. I secondi, Italia, Francia e Spagna con Belgio, Lussemburg­o, Portogallo, Grecia, Irlanda e Slovenia chiedono esattament­e il contrario.

Prima o poi si troverà un compromess­o perché il virus morde e qualsiasi alternativ­a sarebbe peggiore, con costi geopolitic­i ben maggiori. Anni fa durante i negoziati di Maastricht, l’Italia sempre al centro delle ansie generali, chiesi a un membro della Bundesbank il perché di tanta attenzione su di noi e non su altri: «A differenza della Grecia, l’Italia da sola sarebbe in grado di rovesciare la barca dell’euro», mi rispose.

Trent’anni dopo siamo ancora lì, la nostra precarietà che spaventa, lo stesso dilemma dei nostri partner. L’Italia è “too big to fail” ma anche “too big to save” e comunque non con i soldi degli altri, cosa peraltro mai successa finora.

Però guardando al dopo-virus e all’iper-debito in agguato, delle due l’una: o faremo serie riforme struttural­i capaci di sgessare l’economia e rendere sostenibil­e il nostro debito, o dovremo accettare gli aiuti dell’Europa alle sue condizioni. Nessun prestito è gratis e nemmeno la neutralità dei mercati.

Meglio allora puntare all’autoriform­a per un’Italia e un’Unione migliori. Perché sono anche i nostri ritardi a rallentare la rinascita europea: il colmo per un Governo europeista.

È anche il nostro ritardo nel rendere sostenibil­e il debito pubblico a rallentare la rinascita dell’Unione

La Ue attiverà una linea di credito per dare assistenza ai Paesi membri sotto forma di prestiti

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