Smart working, il futuro passa da nuovi valori e competenze
All’improvviso per l’emergenza del coronavirus e all’insegna del motto “state a casa” un grandissimo numero di lavoratori sono stati catapultati in un nuovo contesto organizzativo. Di volta in volta, questo nuovo contesto è stato indicato, come telelavoro, home working, lavoro agile e smart working. Sebbene tali espressioni non siano sinonimi hanno un denominatore comune che coincide con la delocalizzazione della postazione di lavoro in “luoghi altri” dai siti aziendali.
Nell’era del coronavirus, il luogo altro è costituito, giocoforza, dall’abitazione dei lavoratori. Quest’esito è reso concretamente possibile dai processi di “sgretolamento” dello spazio (luoghi) e del tempo (orari) del lavoro, e dalla parziale smaterializzazione del lavoro resa possibile e facilitata dalle risorse del cloud e dall’evoluzione delle tecnologie digitali. Insomma, tutti noi costretti dalla pandemia del coronavirus, siamo diventati protagonisti di un esperimento su larga scala nel mondo del lavoro che non potrà non lasciare traccia una volta passata la tempesta perfetta.
Armi, acciaio, malattie e innovazioni del lavoro
Piaccia o meno, nella storia degli ultimi 13mila anni le malattie e le guerre sono state i principali acceleratori dei processi d’innovazione. È questa la tesi di fondo che lo studioso eclettico Jared Diamond, sviluppa nel suo libro che ha per titolo Armi, acciaio e malattie, pubblicato da Einaudi. In altre parole, la storia non è un processo lineare, ma si nutre di discontinuità: i conflitti bellici, le epidemie e i genocidi. Queste esperienze collettive dolorose lasciano tracce profonde anche una volta che siano state superate. Chi sopravviverà alle disgrazie abiterà il mondo in maniera differente da quanto aveva fatto in passato, sviluppando nuovi modi di vedere le cose. Ad esempio, l’ex generale americano Stanley McChrystal mette a frutto l’esperienza dei combattimenti in Afghanistan, ripensando in maniera radicale il modello e la cultura organizzativa verso schemi basati su processi di responsabilizzazione e di fiducia che si fondano sulle possibilità di connessione offerte dalle tecnologie digitali.
Il peccato originale: urgenza e fai da te
Quella che ora stiamo vivendo è una sperimentazione su larga scala di una specie particolare di smart working costruito all’insegna dell’urgenza e dal “fai da te”. Un lato della medaglia è la coercizione: si tratta di una situazione forzata imposta dalla pandemia del coronavirus che costringe le persone, volenti o nolenti, a essere casalinghi per forza. Vale a dire che il modello emergente di smart working non costituisce il risultato di un processo di partecipazione, ma di uno stato di necessità. In altre parole, a guidare il cambiamento sono i bisogni di sopravvivenza e sicurezza piuttosto che quelli di appartenenza sociale, benessere e autorealizzazione. Inoltre un processo d’innovazione così rapido può sì generare benefici, ma anche creare disorientamento: se lavorare da casa può costituire un vantaggio, può anche indebolire le identità lavorative faticosamente raggiunte e mettere in discussione i modelli di convivenza e appartenenza sociali e familiari. In questi giorni si vede
SARÀ NECESSARIO VALORIZZARE IL POTENZIALE DI AUTONOMIA E SVILUPPO DELLE PERSONE
il lavoro non remotizzabile, ma essenziale. Una buona occasione per pagarlo meglio.
Valorizzare la sperimentazione e generalizzare l’eLearning
La sperimentazione dello smart working su larga scala che stiamo vivendo ha una funzione importante di “scongelamento” delle mentalità e delle abitudini esistenti. Lo scongelamento tuttavia non basta per realizzare una trasformazione organizzativa duratura nel tempo. Per potere agire in questo senso bisogna tenere conto che l’espressione smart working sottende una modalità emergente di organizzazione del lavoro fondata sulla responsabilizzazione delle persone e dei gruppi, su processi di open leadership, sull’engagement e sulla collaborazione. È vero, lo smart working è reso possibile, in primo luogo, dalle opportunità offerte dall’Ict. Tuttavia per arrivare a forme di organizzazioni più democratiche bisogna porre al centro le persone, valorizzando il loro potenziale di autonomia e di sviluppo. Bisogna poi tenere conto dei bisogni relativi agli aspetti distintivi e ai vincoli del contesto professionale e aziendale. È chiaro che è possibile innovare solo se si abbraccia una cultura dinamica fondata su collaborazione, fiducia e senso di scopo.
Che fare?
Per mettere in pratica lo smart working risulta essenziale lavorare sullo sviluppo di infrastrutture e piattaforme digitali. Tuttavia, per poter arrivare a risultati concreti è fondamentale investire sullo sviluppo di una cultura della responsabilità e dell’autonomia e su sistemi organizzativi evoluti fondati sulla definizione degli obiettivi, sulla comunicazione e sul miglioramento continuo. Insomma, il traguardo dello smart working su larga scala implica la gestione di un processo di cambiamento generatore di nuovi valori e nuove competenze. In questo quadro il coronavirus può costituire un acceleratore importante. Tuttavia l’impatto della pandemia non basta per ottenere risultati tangibili e continuativi nel tempo. È per questo che aziende e lavoratori non debbono essere abbandonati a se stessi, ma accompagnati verso nuovi obiettivi, valori e modelli di comportamento.
In altre parole, il processo di cambiamento verso lo smart working va monitorato, guidato e indirizzato attraverso un processo pluralistico e partecipato entro cui va valorizzato il ruolo dei corpi intermedi più coraggiosi: le associazioni d’impresa, i sindacati, i fondi interprofessionali, le università, le scuole di formazione e le società di consulenza che debbono operare in un quadro integrato. “Il giorno dopo” si costruisce ora e sarà decisivo, ma sarà campo di azione di chi avrà avuto il coraggio di cambiare davvero.
Fondatore di Skilla.com; segretario generale della Fim-Cisl; professore
di Organizzazione aziendale all’Università di Milano-Bicocca