La falsa (ri)partenza dei vecchi Pir
Nei primi due mesi del 2020 la raccolta si è fermata a quota -308 milioni
I Pir tradizionali, quelli che hanno esordito sul mercato nel 2017, dopo un debutto con il botto non hanno avuto vita semplice. Congelati per tutto il 2019, il 2020 avrebbe potuto essere l’anno della rinascita. Grazie alle modifiche normative che hanno permesso ai piani individuali di tornare alla versione originale, la maggior parte delle Sgr era pronta a spingere di nuovo sull’acceleratore, ma le cose sono andate diversamente, almeno per il momento. Performance deludenti, mercati volatili, totale incertezza per il futuro, soprattutto per le realtà imprenditoriali medio piccole, non sono certo elementi che stimolano lo spirito di iniziativa degli investitori, che infatti continuano a liquidare le posizioni (-308 milioni la raccolta nei primi due mesi del 2020) e a riposizionare il portafoglio su asset class più tranquille. Uno scenario cambiato radicalmente se si pensa che nel 2017 con una raccolta positiva per 11 miliardi i Pir si sono ritagliati un ruolo di rilievo nell’intero segmento dei fondi comuni. Ruolo che hanno consolidato nel 2018 quando con un incasso di 4 miliardi, hanno tenuto le redini della raccolta totale dei fondi aperti, precipitata a 71 milioni dagli oltre 70 miliardi rastrellati nel 2017.
Creati con lo scopo di veicolare il risparmio delle famiglie verso l’economia reale, i Pir sono stati pensati soprattutto per il pubblico retail, conquistato in fretta, complice il beneficio fiscale riconosciuto a chi l’investimento lo mantiene per almeno cinque anni. Un’agevolazione che però ha senso solo se il rendimento del prodotto è positivo; in caso contrario non cambia nulla rispetto a un prodotto che non sia Pir compliant. Non si pagano tasse sulle perdite. La possibilità di non essere tassati sui guadagni stimola inoltre ad allungare l’orizzonte temporale d’investimento, ma anche a consolidare il legame tra sottoscrittore ed Sgr.
La critica che spesso è stata mossa a questi prodotti è che però sull’economia reale ci investano ben poco, concentrandosi semmai sui titoli più liquidi a media e grande capitalizzazione del mercato principale e in particolare sul settore finanziario. Del resto l’orizzonte investibile sulle aziende medio piccole italiane è limitato, nonostante il lancio dei piani individuali di risparmio abbia vivacizzato il listino Aim riservato alle piccole medie imprese tricolore. Molti imprenditori, infatti, sono stati stimolati ad aprirsi al mercato dei capitali nella speranza di trovare un canale di finanziamento alternativo a quello bancario. Ma già nel primo anno di attività uno studio ha stimato che a fronte di una raccolta di 11 miliardi, soltanto 43 milioni siano finiti nelle casse dei più piccoli e non sembra che con il tempo la situazione sia cambiata molto.
Difficile ora fare previsioni su come possa evolvere il mercato. L’unica certezza è che un anno è stato perso a causa dei vincoli proibitivi all’investimento, un altro rischia di fare la stessa fine per la crisi sanitaria. A questo punto chissà che il testimone non passi in mano ai Pir alternativi, se e quando vedranno la luce.
11 MILIARDI DI RACCOLTA Totalizzati nel corso del 2017, quando si sono ritagliati un posto di rilievo nell’intero segmento dei fondi comuni di investimento