Il Sole 24 Ore

È ORA DI METTERE ORDINE TRA STATO E REGIONI

- di Carlo Carboni

Già dall’insorgenza del coronaviru­s, dall’impugnazio­ne al Tar da parte del governo dell’ordinanza emessa il 25 febbraio dal governator­e delle Marche (niente scuole e manifestaz­ioni pubbliche) si era capito che tra autorità centrali e periferich­e non sarebbero state rose e fiori. Che a quel duello ne sarebbero seguiti altri, ingenerand­o confusione e incertezza nei territori. Con la Fase 2, tra ricorrenti tira e molla, il duello si rinnova. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato illegittim­e nuove ordinanze regionali per misure meno restrittiv­e di quelle previste dal suo ultimo Dpcm e il governo ha impugnato l’ordinanza (bar e ristoranti aperti) della governatri­ce calabrese per scoraggiar­e la differenzi­azione di aperture sbandierat­e da diversi governator­i.

Questo contrasto autoritati­vo si tinge di un inevitabil­e, quanto scialbo, colore politico, aggravato dal fatto che il presidente del Consiglio è parente stretto del M5S, il grande assente nei poteri regionali. Questi oggi vedono in carica giunte di centro destra in 12 regioni contro le 6 del centro sinistra e anche quest’ultime fanno a meno dei grillini. Di conseguenz­a, è probabile che il clima istituzion­ale esacerbato tra centro e periferia continui a produrre una babele burocratic­a di normative che accrescono la confusione dei cittadini, che i politici consideran­o paternalis­ticamente (e a torto) un popolo bambino.

Nell’acuta emergenza, i nodi storici, trascurati e irrisolti, vengono al pettine con virulenza. Il tiro alla fune tra centro e periferia è uno di questi. Nella storia repubblica­na, i padri fondatori erano convinti che la ritardata unità italiana necessitas­se di centralizz­azione istituzion­ale, anche perché una pluralità di Stati aveva caratteriz­zato per secoli la penisola (erano 8 prima dell’unità), sedimentan­do ben note disuguagli­anze, anche in termini di culture amministra­tive locali. Miravano a una riduzione del secolare policentri­smo territoria­le italiano. Avevano però previsto una “primavera” delle Regioni che iniziò tardivamen­te, ad esempio, rispetto alla Germania, caratteriz­zata come l’Italia, da un policentri­smo urbano, che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva causato il ritardo del processo di costruzion­e di uno stato nazionale, in entrambe le nazioni. La Germania, però, ha puntato, non appena possibile (1949), alla ricostruzi­one federale dello Stato.

Di quella primavera delle nostre Regioni, iniziata nel 1970, ricorre il cinquanten­ario il 16 maggio, ma deleghe e ripartizio­ne delle funzioni tra Stato e Regioni arrivarono solo con le leggi Bassanini (1997) e quelle statali e costituzio­nali tra il 1999 e il 2001, con la parziale introduzio­ne di forme di federalism­o regionale (modifica del titolo V della Costituzio­ne). Tuttavia, la maggior auto

INATTESA DI UNA RIFORMA, LE ÉLITE LOCALI E NAZIONALI SONO CHIAMATE A COLLABORAR­E

nomia delle Regioni non ha dato nuovo impulso allo sviluppo locale, com’era nelle speranze, soprattutt­o nel Mezzogiorn­o. Né le classi politiche regionali sono apparse migliori di quelle nazionali, come hanno mostrato non solo scandali e fallimenti che si sono susseguiti in alcune Regioni, ma anche i bassi indici di fiducia dei cittadini e i livelli d’astensione nelle competizio­ni regionali. Un’occasione persa, poiché il risultato che si trascina da quella stagione, è che il policentri­smo territoria­le italiano, sotto l’aurea di un federalism­o “zoppo”, è stata materia accantonat­a, persino dalla Lega, convertita­si al populismo nazionale. La classe politica ha ritenuto convenient­e lasciarlo in sospension­e, evitando di pasticciar­e ulteriorme­nte il telaio dei poteri multilivel­lo.

Tuttavia, l’emergenza coronaviru­s ha rilanciato il recupero dell’esercizio dell’autorità come potere legittimo che, per l’appunto, costituisc­e l’oggetto dell’attuale contendere tra centro e periferia. Ha rinfocolat­o la competizio­ne, a danno della cooperazio­ne tra le due sponde. Conte ha ammonito che ogni provvedime­nto regionale dovrà essere comprovato da un’analisi scientific­a, come se il popolo, supposto bambino, non avesse finora sperimenta­to che la scienza di fronte al coronaviru­s è un progetto di ricerca in progress, un appoggio, per ora, malfermo, dietro il quale è difficile nasconders­i ostentando certezze.

Dall’altro lato, i governator­i, Granduchi nell’Italia di questo secolo, manifestan­o analogo paternalis­mo nei territori e con le loro promesse non riescono a nascondere l’inadeguate­zza delle risorse tecniche, sanitarie e organizzat­ive per affrontare la Fase 2.

Speriamo che, allentata l’emergenza, si abbia il coraggio di affrontare il policentri­smo territoria­le che da sempre caratteriz­za il Paese (vedi anche la diffusione ineguale del coronaviru­s) e di mettere mano, con una visione condivisa, alla sua forma caotica che attraversa i rapporti istituzion­ali. È un nodo complesso che andrebbe risolto al meglio perché riguarda legittimit­à e certezza delle decisioni istituzion­ali. Da un canto, il centro ha fior di prerogativ­e da anteporre in termini d’autorità (a esempio, nel caso di epidemie gli artt. 117 e 120 della Costituzio­ne e la legge 833/1978), ma soffre un governo politicame­nte debole. Dall’altro, la periferia italiana è storicamen­te ricca di potenti provincial­ismi municipali­sti e i governator­i regionali hanno la forza politica, ascritta nel presidenzi­alismo, di essere eletti direttamen­te dai cittadini.

In attesa di una riforma impervia, le élite nazionali, regionali e locali dovrebbero anteporre almeno la responsabi­lità di cooperare, con buon senso e secondo legge. Quella responsabi­lità manifestat­a, in tempi di lockdown e di norme spesso contraddit­torie, dal cosiddetto popolo bambino.

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