È ORA DI METTERE ORDINE TRA STATO E REGIONI
Già dall’insorgenza del coronavirus, dall’impugnazione al Tar da parte del governo dell’ordinanza emessa il 25 febbraio dal governatore delle Marche (niente scuole e manifestazioni pubbliche) si era capito che tra autorità centrali e periferiche non sarebbero state rose e fiori. Che a quel duello ne sarebbero seguiti altri, ingenerando confusione e incertezza nei territori. Con la Fase 2, tra ricorrenti tira e molla, il duello si rinnova. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato illegittime nuove ordinanze regionali per misure meno restrittive di quelle previste dal suo ultimo Dpcm e il governo ha impugnato l’ordinanza (bar e ristoranti aperti) della governatrice calabrese per scoraggiare la differenziazione di aperture sbandierate da diversi governatori.
Questo contrasto autoritativo si tinge di un inevitabile, quanto scialbo, colore politico, aggravato dal fatto che il presidente del Consiglio è parente stretto del M5S, il grande assente nei poteri regionali. Questi oggi vedono in carica giunte di centro destra in 12 regioni contro le 6 del centro sinistra e anche quest’ultime fanno a meno dei grillini. Di conseguenza, è probabile che il clima istituzionale esacerbato tra centro e periferia continui a produrre una babele burocratica di normative che accrescono la confusione dei cittadini, che i politici considerano paternalisticamente (e a torto) un popolo bambino.
Nell’acuta emergenza, i nodi storici, trascurati e irrisolti, vengono al pettine con virulenza. Il tiro alla fune tra centro e periferia è uno di questi. Nella storia repubblicana, i padri fondatori erano convinti che la ritardata unità italiana necessitasse di centralizzazione istituzionale, anche perché una pluralità di Stati aveva caratterizzato per secoli la penisola (erano 8 prima dell’unità), sedimentando ben note disuguaglianze, anche in termini di culture amministrative locali. Miravano a una riduzione del secolare policentrismo territoriale italiano. Avevano però previsto una “primavera” delle Regioni che iniziò tardivamente, ad esempio, rispetto alla Germania, caratterizzata come l’Italia, da un policentrismo urbano, che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva causato il ritardo del processo di costruzione di uno stato nazionale, in entrambe le nazioni. La Germania, però, ha puntato, non appena possibile (1949), alla ricostruzione federale dello Stato.
Di quella primavera delle nostre Regioni, iniziata nel 1970, ricorre il cinquantenario il 16 maggio, ma deleghe e ripartizione delle funzioni tra Stato e Regioni arrivarono solo con le leggi Bassanini (1997) e quelle statali e costituzionali tra il 1999 e il 2001, con la parziale introduzione di forme di federalismo regionale (modifica del titolo V della Costituzione). Tuttavia, la maggior auto
INATTESA DI UNA RIFORMA, LE ÉLITE LOCALI E NAZIONALI SONO CHIAMATE A COLLABORARE
nomia delle Regioni non ha dato nuovo impulso allo sviluppo locale, com’era nelle speranze, soprattutto nel Mezzogiorno. Né le classi politiche regionali sono apparse migliori di quelle nazionali, come hanno mostrato non solo scandali e fallimenti che si sono susseguiti in alcune Regioni, ma anche i bassi indici di fiducia dei cittadini e i livelli d’astensione nelle competizioni regionali. Un’occasione persa, poiché il risultato che si trascina da quella stagione, è che il policentrismo territoriale italiano, sotto l’aurea di un federalismo “zoppo”, è stata materia accantonata, persino dalla Lega, convertitasi al populismo nazionale. La classe politica ha ritenuto conveniente lasciarlo in sospensione, evitando di pasticciare ulteriormente il telaio dei poteri multilivello.
Tuttavia, l’emergenza coronavirus ha rilanciato il recupero dell’esercizio dell’autorità come potere legittimo che, per l’appunto, costituisce l’oggetto dell’attuale contendere tra centro e periferia. Ha rinfocolato la competizione, a danno della cooperazione tra le due sponde. Conte ha ammonito che ogni provvedimento regionale dovrà essere comprovato da un’analisi scientifica, come se il popolo, supposto bambino, non avesse finora sperimentato che la scienza di fronte al coronavirus è un progetto di ricerca in progress, un appoggio, per ora, malfermo, dietro il quale è difficile nascondersi ostentando certezze.
Dall’altro lato, i governatori, Granduchi nell’Italia di questo secolo, manifestano analogo paternalismo nei territori e con le loro promesse non riescono a nascondere l’inadeguatezza delle risorse tecniche, sanitarie e organizzative per affrontare la Fase 2.
Speriamo che, allentata l’emergenza, si abbia il coraggio di affrontare il policentrismo territoriale che da sempre caratterizza il Paese (vedi anche la diffusione ineguale del coronavirus) e di mettere mano, con una visione condivisa, alla sua forma caotica che attraversa i rapporti istituzionali. È un nodo complesso che andrebbe risolto al meglio perché riguarda legittimità e certezza delle decisioni istituzionali. Da un canto, il centro ha fior di prerogative da anteporre in termini d’autorità (a esempio, nel caso di epidemie gli artt. 117 e 120 della Costituzione e la legge 833/1978), ma soffre un governo politicamente debole. Dall’altro, la periferia italiana è storicamente ricca di potenti provincialismi municipalisti e i governatori regionali hanno la forza politica, ascritta nel presidenzialismo, di essere eletti direttamente dai cittadini.
In attesa di una riforma impervia, le élite nazionali, regionali e locali dovrebbero anteporre almeno la responsabilità di cooperare, con buon senso e secondo legge. Quella responsabilità manifestata, in tempi di lockdown e di norme spesso contraddittorie, dal cosiddetto popolo bambino.