LO STATO E L’ECONOMIA POST COVID, TRE QUESTIONI CHE VANNO CHIARITE
«Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra». La parabola esistenziale di Borges che descrive la condizione di ogni azione umana è ben applicabile anche all’incertezza e volatilità delle previsioni economiche e al fatto inevitabile che ogni azione, sia essa individuale o collettiva, cioè di policy, nasce da una qualche visione della realtà e del suo evolversi, e quindi da previsioni, per quanto esse possano essere considerate di sabbia. Le previsioni economiche, incerte e discutibili in tempi normali, sono ancor più incerte in tempi di crisi come quella indotta oggi da un evento esogeno all’economia come la pandemia scatenata da un virus sconosciuto. E tuttavia nessuna azione governativa si giustifica senza dichiarare quale sia il risultato atteso rispetto a ciò che si prevede possa avvenire in assenza di tali azioni.
Le previsioni economiche di riferimento per il governo italiano sono contenute nel Documento di economia e finanza (Def) rilasciato in aprile, ma colpiva in questo documento il fatto che non fosse indicata una previsione programmatica, cioè corretta per gli effetti dipolicy. di policy. Dal punto di vista strettamente tecnico la scelta appariva in parte giustificata: a fronte di uno scenario tendenziale, cioè a legislazione invariata, in cui era prevista una caduta del Pil nel 2020 di oltre l’8% e di un deficit associato del 7,4% del
Pil, era disegnato uno scenario di finanza pubblica programmatico in cui il deficit era indicato superiore al 10% in considerazione del maggior indebitamento previsto corrispondente ai 55 miliardi del cui utilizzo oggi si discute. Non era stata proposta alcuna previsione degli effetti su Pil, occupazione, consumi e investimenti di questo maggior deficit, il cui obiettivo è proprio quello di frenare l’intensità della recessione prevista. Questa decisione era allora tecnicamente giustificata, come si diceva, dal fatto che non c’era ancora, evidentemente, un’idea chiara dell’uso di questo maggior deficit e quindi degli effetti attesi. Ora ci chiediamo se questa mancanza sia stata nel frattempo colmata visto che ora il governo ha proceduto a disegnare le misure da adottare e se questo non consenta di indicare gli effetti attesi di queste misure, in tal modo chiarendo i dubbi sulla strategia perseguita. Sarebbe un fatto importante, non per soddisfare la curiosità degli economisti ma per fornire un quadro di riferimento per le aspettative di imprese e famiglie.
I governi di tutti i principali Paesi del mondo stanno intervenendo, o cercano di intervenire, massicciamente per iniettare risorse finanziarie nelle economie al fine di impedirne il collasso. Principalmente si sono mosse le banche centrali su richiesta dei governi. Tuttavia le banche centrali hanno potere sull’offrire liquidità, ma non hanno poteri di spesa e quindi non possono giocare da sole. I poteri di
ANDIAMO VERSO UNA FASE IN CUI GLOBALIZZAZIONE E MERCATI VERRANNO RIDIMENSIONATI
spesa li hanno i governi e per esercitarli, anche nell’emergenza, sono chiamati a scelte consapevoli del contesto in cui dovranno operare.
L’economia del dopo Pandemia sarà inevitabilmente caratterizzata da un aumento del ruolo degli Stati rispetto al mercato, da una revisione dell’eccesso di iper-globalizzazione che ha caratterizzato gli ultimi decenni, e infine da un probabile abbassamento del tasso di crescita globale.
Il ruolo dello Stato si dovrà rafforzare nella sua capacità di intervenire nelle crisi e di proteggere le popolazioni sia economicamente sia fisicamente, come condizione stessa perché il mercato possa operare. Ciò significa assicurazione sociale e sanitaria per rispondere al senso di insicurezza dei cittadini. L’iper- globalizzazione aveva lasciato soli i governi nazionali nell’affrontare ineguaglianze e insicurezze, pur producendo efficienza, produttività e anche crescita globale, seppur con benefici sempre più decrescenti. Vi sarà quindi una inevitabile revisione e ristrutturazione delle catene produttive globali per affrontare le debolezze che si sono manifestate quando la ricerca di economie di scala ha anche prodotto vulnerabilità dovute alla concentrazione eccessiva di produzioni strategiche, come quelle riguardanti medicinali e attrezzature sanitarie o input tecnologici intermedi. L’accorciamento o la diversificazione delle catene produttive attuali determinerà probabilmente un aumento dei costi di prodi duzione e il rallentamento conseguente della crescita, ma anche un possibile positivo riequilibrio delle economie in direzione della sostenibilità, se si eviteranno reazioni ideologiche di tipo nazionalistico che chiamano alla de- globalizzazione e alle guerre commerciali.
In questo quadro, le scelte di tutti i governi, nei differenti contesti istituzionali, riguardano cosa deve fare lo stato, come lo deve fare e con quali risorse. Non facile per qualsiasi governo, e il governo italiano non fa eccezione, ma tre questioni andrebbero chiarite. La prima è se lo stato deve entrare direttamente nel sistema produttivo oltre il perimetro delimitato dal garantire l’offerta di beni e servizi pubblici essenziali o limitarsi a sostenere le imprese con un sistema di protezione e sostegno di fronte a crisi esogene nonché con strumenti di indirizzo indiretto. La seconda è se intende assumersi decentemente l’onere di assicurare le infrastrutture essenziali per una economia competitiva e quindi l’onere di costruire una capacità di investimento pubblico. Terzo se esso è consapevole che l’esplosione del deficit pubblico da pandemia, necessario in quanto delimitato alla reazione di emergenza alla crisi, non può tramutarsi in spese strutturali tali da configurare deficit permanenti e crescenti tali che possano porre dubbi di sostenibilità. Dalle misure annunciate fino a oggi queste scelte non appaiono affatto chiare.