Caso Sanofi, Macron in difesa dei campioni nazionali della Francia
La società smentisce l’intenzione di consegnare vaccini prima agli Stati Uniti Il premier Philippe:«Gruppo profondamente francese» Macron incontrerà i vertici
«America First», «La fine della globalizzazione». Slogan, indubbiamente: gli interessi dei grandi gruppi americani vanno in un’altra direzione. Nell’epoca del coronavirus, però, il conservatorismo caotico di Donald Trump a volte trasforma in realtà la sua propaganda; e se a essere coinvolta è la Francia, che ha adottato con Emmanuel Macron una sorta di nazionalismo europeista, sia pure più moderato e strategicamente più coerente, lo scontro è inevitabile.
L’ultimo motivo di tensione ruota attorno alla Sanofi, il gruppo farmaceutico nato nel 2004 dalla fusione di Sanofi-Synthélabo e Aventis con sede a Parigi, un’azienda destinata a giocare un ruolo importante nella lotta al coronavirus: la Sanofi Pasteur di Lione è uno dei leader mondiali nello sviluppo dei vaccini, e organizza due tra i più grandi laboratori di ricerca del mondo - a Marcy l’Etoile vicino al quartier generale (con 3.400 dipendenti) e a Swiftwater, in Pennsylvania (2.200 dipendenti) - oltre a diversi centri di produzione nel mondo. L’amministratore delegato del gruppo, il britannico Paul Hudson, ha dichiarato che gli Stati Uniti sono un partner «modello», e che per questo motivo saranno i primi a ricevere i nuovi vaccini, mentre gli altri Paesi seguiranno dopo qualche giorno o qualche settimana.
La dichiarazione ha allarmato i francesi, anche perché, come lo stesso Hudson aveva spiegato, la Sanofi è già pronta a produrre 600 milioni di dosi negli Stati Uniti, che potrebbero salire a 1,2 miliardi, mentre «la parte restante sarà prodotta in Europa, con alcune lavorazioni addizionali negli Stati Uniti», che quindi faranno la parte del leone. Soprattutto, le dichiarazioni di Hudson sono apparse come una forma di pressione sui Paesi europei: «Abbiamo appena iniziato ad avere contatti con i governi europei, che devono accettare di dover pagare qualcosa che potrebbe non funzionare».
Le proteste sono state immediate, e Sanofi – a tutti i livelli di management – ha smentito il suo amministratore delegato. Le sue parole sono state davvero, come ha detto l’entourage del ministro dell’Economia Bruno Le Maire, «maldestre». Il primo maggio, il presidente Macron, insieme ad Angela Merkel e ad altri leader europei, aveva precisato - e lo ha ripetuto ieri - che il vaccino deve essere un «bene comune dell’umanità», mentre il 21 aprile il governo francese – accortamente – aveva acquistato 60 milioni di azioni della Sanofi, una public company: quasi il 5% del capitale che rende lo Stato francese il terzo azionista dopo l’Oréal (che fa capo alla famiglia Bettencourt) e Blackrock. Sanofi, che nel 2019 ha realizzato utili per 2,9 miliardi, riceve inoltre dallo Stato 150 milioni di euro l’anno in crediti d’imposta per la ricerca.
In Borsa, dai massimi di venerdì, il titolo ha perso più del 4%: quando Olivier Faure, leader del Partito socialista (all’opposizione), suggerisce che Sanofi corre il rischio di una nazionalizzazione sicuramente esagera – Sanofi capitalizza 109 miliardi, il 4,5% del Pil francese – ma evoca per il gruppo la possibilità concreta di dover fare i conti con lo Stato francese. Il presidente incontrerà i vertici Sanofi la prossima settimana mentre il presidente del Consiglio Edouard
Un campione nazionale
Sanofi, il gruppo guidato dal britannico Paul Hudson - oggi al centro delle polemiche - è nato dalla fusione tra la Sanofi-Synthélabo - che trova le sue più lontane origini nel 1973, quando Elf Aquitaine fondò la prima Sanofi, e la Aventis. È una public company: nessun investitore supera il 10%. Il primo azionista è l’Oréal, della famiglia Bettencourt, seguita da Blackrock e, dal 21 aprile, dallo Stato francese che ha acquisito una quota del 5% circa attraverso la Caisse des dépôts et consignations
Philippe ha ricordato che è «un’impresa profondamente francese».
Macron non è un liberista. Ha preso più volte le distanze dalle “leggi del mercato” – anche a proposito del vaccino contro il coronavirus – mentre Le Maire a marzo ha evocato acquisizioni di quote e nazionalizzazioni, sia pure temporanee, per proteggere le grandi imprese. A maggior ragione potrebbe farlo per contrastare il desiderio dell’amministrazione Usa di mettere le mani per prima sul vaccino. Gli Usa hanno già offerto «una grande somma» alla tedesca CureVac per avere accesso alle sue ricerche, scatenando la brusca reazione del governo di Berlino. Il sostegno europeo, per la Francia, è quasi una certezza.
Al di là dell’epidemia, la Francia di Macron non ha abbandonato la sua strategia di lungo periodo di tutela del campioni nazionali (che ora il presidente vorrebbe europei per meglio contrastare la concorrenza Usa e cinese). È entrata in collisione anche con la commissaria Margrethe Vestager sulla fusione Alstom-Siemens e potrebbe farlo di nuovo se, come sembra, dovesse bloccare l’operazione FincantieriStx. L’orientamento di Macron è insomma decisamente “pro business” e molto meno “pro markets”. A maggior ragione dopo il confinement: il governo ha già destinato 18 miliardi al turismo, ed è pronto a concedere a giugno ulteriori aiuti alle compagnie automobilistiche, che ieri hanno incontrato Le Maire, e alle industrie aeronautiche (Air France compresa).
Parigi ha inoltre mostrato di non temere l’amministrazione Trump: Le Maire ha confermato che la tassa Gafa ( Google, Amazon, Facebook, Apple) sui ricavi delle grandi imprese internet sarà varata entro fine anno: « Mai come ora una digital tax è stata più legittima e più necessaria». Parigi non aspetterà dunque l’esito delle trattative in sede Ocse per definire uno quadro internazionale di riferimento, malgrado le minacce di Trump di imporre tariffe sui prodotti francesi.