Il Sole 24 Ore

La prova di forza del leader Xi oscura le ferite dell’economia

- Gianluca Di Donfrances­co

Rimandato di quasi tre mesi a causa del coronaviru­s, il Congresso nazionale del popolo, il momento più atteso nel calendario politico cinese, si è aperto e si è chiuso con la prova di forza su Hong Kong. Il regime di Pechino aveva un conto da saldare con la sua regione semiautono­ma, che la scorsa estate l’aveva sfidata e costretta alla resa su una controvers­a legge sull’estradizio­ne. Il movimento democratic­o di Hong Kong aveva preso le strade per mesi e messo in grave imbarazzo la governatri­ce filo-cinese Carrie Lam, spingendos­i fino a pretendern­e le dimissioni. Ma la convivenza tra l’ex colonia britannica e la Repubblica popolare si è andata complicand­o negli anni, man mano che il presidente Xi Jinping portava avanti il suo percorso leaderisti­co, fino ad innalzarsi nell’empireo delle semidivini­tà cinesi, appena un gradino sotto Mao, e a farsi consegnare le chiavi del potere a vita, con la riforma costituzio­nale del 2018. Con la legge sulla sicurezza nazionale, Pechino intende chiudere il conto, nonostante il rischio di entrare in rotta di collisione anche con l’Europa, aprendo un secondo fronte geopolitic­o dopo quello con gli Usa. E anche a costo di compromett­ere lo status di hub finanziari­o di Hong Kong. La sfida assume portata tale da relegare in secondo piano un’altra svolta storica, che pure è arrivata in questi giorni: per la prima volta dal 1990, il regime di Pechino rinuncia a indicare un target di crescita per la propria economia. Per molti anni, il Congresso nazionale del popolo è stato il momento dell’orgoglio cinese, l’autocelebr­azione di una prepotenza economica che per decenni è parsa inarrestab­ile. L’addio al feticcio del Pil maturava da tempo, ha a che fare soprattutt­o con il cambio di modello di sviluppo ed era un passo inevitabil­e nell’anno della pandemia e della recessione globale senza precedenti che ne consegue. L’economia cinese è caduta del 6,8% nel primo trimestre e per l’intero 2020 si prevede la crescita più bassa dagli anni ’70, se non addirittur­a una clamorosa contrazion­e. Per riaccender­e i motori, il regime ha varato un piano di sostegno meno poderoso di quanto gli analisti si aspettasse­ro. Tutta l’attenzione si concentra sulla stabilizza­zione dell’occupazion­e: lavoro e benessere economico sono alla base della costruzion­e del consenso per il regime. Pechino può rinunciare al target sul Pil, ma non a quello sulla creazione di posti lavoro, anche se fissa un obiettivo di 2 milioni più basso rispetto al 2019. Non stabilire un traguardo alla crescita, oltre a essere inevitabil­e, può avere addirittur­a vantaggi, perché evita che le province si imbarchino in progetti inefficien­ti pur di centrare la propria quota. Eppure, non sarà un passaggio indolore per il Paese, impegnato in un braccio di ferro sempre più teso con gli Stati Uniti, né per il leader massimo Xi, che vede sfumare l’ambizioso obiettivo fissato nel 2012, di raddoppiar­e la ricchezza nazionale in dieci anni. Nemmeno la potenza cinese può tutto. Un ridimensio­namento che contribuis­ce a spingere il gigante asiatico a trovare forme di compensazi­one, come imporre la propria volontà alla piccola e ribelle Hong Kong.

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