Per una rigenerazione urbana delle relazioni
I ragazzi vivevano già in un isolamento relazionale: i rapporti reali sono svaniti da tempo Non sono solo i social network: si tratta di ripensare l’intera vita sociale, a partire dalle città
Ibambini in età prescolare hanno sofferto la compressione dell’energia fisica dovuta al lockdown, ma la tolleranza dei bambini e dei ragazzi più grandi ci ha sorpreso. Questa buona notizia ha un lato oscuro: i ragazzi hanno sofferto poco perchè erano confinati nelle loro camere da molto tempo. La vita all’aperto e in gruppo che avevano sempre fatto non esiste più da qualche generazione. Ora bambini e ragazzi conducono una vita solitaria e sedentaria.
È un fatto inedito nella storia, cominciato con l’avvento delle auto. In Italia una ricerca sui ragazzi delle superiori ha mostrato che il 62% delle ragazze e il 36% dei maschi si sente spesso solo. La transizione dei bambini a questo tipo di vita era già conclusa alla fine degli anni ‘80. In una sola generazione dagli anni ’70, il “raggio di attività” dei bambini - l’area intorno a casa in cui possono muoversi per conto loro - è crollato di quasi il 90 per cento. Tra il 1969 e il 2001 negli Stati Uniti gli studenti che vanno a scuola da soli sono crollati dal 40,7 al 12,9 per cento.
La mobilità e l’indipendenza dei bambini sono precipitate ovunque. In Gran Bretagna, nel 1971, l’80% dei bambini tra 7 e 8 anni andava a piedi a scuola, spesso da solo o con i propri amici. Due decenni dopo erano meno del 10% e quasi tutti accompagnati dai genitori. Oggi due bambini su tre di 10 anni non sono mai stati in un negozio o in un parco da soli. Quasi un adulto ogni due ritiene che 14 anni sia l’età minima a cui un bambino può andare in giro da solo. «Solo una generazione fa, un bambino di dieci anni aveva più libertà di quanto non ne abbia oggi un adolescente», è la allarmata conclusione di un rapporto inglese.
Gli effetti sono disastrosi, dalla mancanza di contatto con la natura a un’epidemia di obesità, triplicata a seguito del collasso dell’attività fisica dei bambini. Ma l’effetto più importante è la privazione relazionale. Quando i bambini giocavano per strada, formavano i loro gruppi e il coinvolgimento nelle dinamiche interpersonali insegnava loro le abilità sociali che li avrebbero accompagnati per tutta la vita. La segregazione relazionale è alla base della crescita dell’ansia, della depressione e persino dei suicidi dei ragazzi. Il suicidio è divenuto la seconda causa di morte tra i nostri under 20, dopo gli incidenti stradali.
Il confinamento in casa dei ragazzi è cominciato molto prima dell’avvento dell’era digitale, alla quale viene spesso erroneamente attribuito. È vero che la vita al tempo dei social networks è fatta di superficialità, apparenza, profonda solitudine e dipendenza. Ma non sono i social la radice di questa situazione. I bambini si abituano a relazioni mediate dagli schermi, visto che sono costretti ad adattarsi alla solitudine. Le relazioni virtuali divengono un sostituto di quelle reali che non hanno più. Il mondo relazionale dei bambini viene costruito sulla intermediazione degli schermi semplicemente perchè quello è il tipo di relazioni a cui hanno più facilmente accesso.
Quanto alla dipendenza, la nostra è la società delle dipendenze ed esse non riguardano di sicuro solo i ragazzi: droghe legali e illegali, calcio, tabacco, pornografia, tv, gioco d’azzardo, ecc. Non sono certo nativi digitali quelli che nei nostri bar si attaccano alle slot machine. Dunque il primo motivo della dipendenza dai social è la vulnerabilità della nostra società a ogni genere di dipendenza. Il secondo è che i social network sono stati progettati per creare dipendenza. Recentemente alcuni ex top manager di Facebook, come l’ex presidente Sean Parker, hanno dichiarato che l’obiettivo dello sviluppo del programma era «occupare la maggior parte possibile del tempo e dell’attenzione degli utenti». Il tasto “like” è stato creato allo scopo di «dare agli utenti una piccola botta di dopamina per incoraggiarli a caricare più contenuti». Facebook ha sfruttato «una vulnerabilità nella psicologia umana» per creare «un meccanismo di approvazione sociale».
I social networks, come molte altre tecnologie, non sono né buoni né cattivi. Dipende da come li usiamo. Possono essere una grande opportunità per costruire relazioni e farle uscire dal mondo virtuale, come dimostrano innumerevoli esempi. Oppure possono intrappolare le relazioni in un mondo dove non hanno alcuno spessore. Il fatto che i social approfittino della vulnerabilità di massa alla dipendenza non è legato alla tecnologia in sé ma a come viene sviluppata.
Rimedi? È compito del settore pubblico regolamentare, controllare e sanzionare questo tipo di attività, come lo fa con altri beni che creano dipendenza, come droghe, alcol o psicofarmaci. È un compito che è diventato necessario e possibile adesso che i media e l’opinione pubblica stanno drizzando le antenne sui rischi dei social network Ma il controllo pubblico non basterà a restituire una vita sociale ai nostri ragazzi se non affrontiamo il problema cruciale: il fatto che le città hanno perso il loro ruolo aggregativo. Dobbiamo dichiarare guerra alle auto. È quello che è già stato fatto in molte città, soprattutto nord-europee, che hanno drasticamente limitato le auto basando la mobilità sulle bici e il trasporto pubblico. L’ambiente urbano è stato popolato di spazi verdi, aree pedonali, centri sportivi. In questo modo città con inverni lunghi e rigidi riescono a portare all’aria aperta più bambini che le nostre città, baciate dal mite clima mediterraneo. Il problema di una vita segregata e solitaria riguarda i bambini di tutto l’Occidente ma l’Italia è particolarmente in ritardo.
Bisogna spingere i giovani a costruire rapporti che escano dal mondo virtuale: è necessario recuperare il ruolo aggregativo delle strade