DA QUESTA CRISI SI ESCE SOLO CON LA POLITICA
Questo libro è scritto per smentire un luogo comune: che dalle grandi emergenze si esce senza la politica. Da sempre un simile pensiero pervade le società più deboli, di fronte alle crisi che mettono in discussione il loro equilibrio. L’agguato del coronavirus al pianeta non si è sottratto a questa regola. Scatenando un sentimento di angoscia mai visto dal dopoguerra, tanto nella classe dirigente quanto tra i cittadini, ha innescato nelle democrazie difese non sempre ben calibrate nelle proporzioni e nella mira contro il nemico. Alcuni Paesi hanno sviluppato una malattia autoimmune, per la quale un eccesso di reazione difensiva s’indirizza contro il sistema a difesa del quale era stata attivata.
Una parte degli storici riconduce a questo meccanismo la genesi di alcuni totalitarismi. Ciò riguarda soprattutto i fascismi, che s’imposero in Europa all’inizio del Novecento, aggredendo le democrazie in un’era iniziale del loro sviluppo, quando ancora le barriere culturali tra le classi sociali tenevano fuori dal gioco una parte della cittadinanza. La pandemia è intervenuta invece in una stagione avanzata e per certi versi senile della democrazia, e in coincidenza con quella che potremmo definire la cronicizzazione del populismo. Una fase in cui l’utopia antisistema ha già ampiamente fallito il tentativo di surrogare la democrazia rappresentativa, ma si è insinuata negli estenuati processi di questa sotto forma di una demagogia strisciante. Che va ben oltre il perimetro dei partiti e dei leader che se la intestano, per diventare uno slittamento inconsapevole del pensiero, comune tanto ai rappresentanti quanto ai rappresentati.
[...]La crisi economica seguita alla pandemia scopre la debolezza dell’azione di governo. Nella fase in cui un quarto della forza produttiva del Paese rischia di saltare, l’idea di sussidiarla per tenerla in piedi – con altro debito pubblico – ha un senso se è accompagnata da una visione di futuro. Se cioè la crisi diventa un’occasione per scelte strategiche in grado di modernizzare il Paese.
Due esempi spiegano quanto incerta e nello stesso tempo vitale sia questa transizione. La pandemia ci ha indotto a una formazione di massa allo smart working. L’organizzazione emergenziale del lavoro che ne è seguita ha sdoganato una frontiera tecnologica che era latente: il lavoro da casa in molti casi ha portato più produttività, più risparmio di tempo, più sostenibilità e più protezione dai rischi del contagio. Ciò vuol dire che è possibile conciliare la creazione di valore economico con il lavoro, la salute e l’ambiente. I cambiamenti testati in questi due mesi di lockdown lockdownsegnalano segnalano una tendenza a stabilizzare le nuove condizioni e suggeriscono alla politica di assecondare questo processo in due modi: attraverso forme di tutela del lavoro più dinamiche e flessibili, e attraverso un ridisegno delle città e della loro organizzazione urbana.
Allo stesso tempo l’accelerazione tecnologica ha mostrato quanto il ildigital digital divide sia la nuova fonte delle diseguaglianze, non solo rispetto alla dotazione di device e alla qualità dell’accesso alla rete, ma soprattutto rispetto alle capacità di usare la tecnologia per risolvere i problemi della vita. Di fronte alla chiusura delle scuole e all’avvio della didattica a distanza, questa sperequazione di mezzi e di saperi ha avuto un costo sociale altissimo per le famiglie e ha amplificato le differenze sociali e culturali. In questo come in altri settori della vita pubblica la risposta della politica è stata e continua a essere di tipo meramente assistenziale, diretta cioè a tamponare gli effetti della crisi con l’erogazione di sussidi, in attesa che tutto torni come prima. Ma niente tornerà come prima.
La debolezza di questo quadro suggerisce ad alcuni un cambio di scena, indotto dalla discesa in campo di una leadership più autorevole, in grado di compattare alleanze più ampie attorno a un governo di solidarietà nazionale o comunque trasversale ai due schieramenti, spaccando a destra come a sinistra l’egemonia delle opzioni populiste e radicali. Ma il salvatore della patria è la suggestione infantile di una democrazia che fa fatica a riconoscere nella robustezza della politica la sua vera fonte di legittimazione. E che si smarrisce, in una coazione a ripetere, su strade già battute.
L’esperienza di Mario Monti dovrebbe scoraggiare un bis. Per autorevole che sia, il leader immaginato o invocato resterebbe un corpo estraneo all’alchemica conflittualità dei partiti: il suo coraggio personale non potrebbe mai surrogare il coraggio politico che gli è richiesto e che può derivargli solo dal rappresentare una visione di futuro e un progetto sostenuti da una comunità di uomini. Dalle grandi crisi non si esce senza la politica. E la politica ha bisogno di idee coltivate con cura e cementate nel corpo del Paese. Oltre il tempo dell’urgenza.
27 PER CENTO È la quota di cittadini italiani di età compresa tra 30 e 34 anni che hanno completato almeno un ciclo universitario. La media europea è al 41 per cento.