Il Sole 24 Ore

MENO STECCATI TRA SCIENZA E DECISORI PUBBLICI

- Di Dario Braga

Se una cosa è emersa con grande evidenza in questa straordina­ria fase Covid, essa è la confusione tra il ruolo della scienza e quello della politica. Abbiamo sentito commenti e prese di posizione variamente distribuit­i tra una adesione fideistica all’idea della scienza che guida i passi della politica, e un rifiuto ideologico di qualsiasi condiziona­mento della scienza sulla politica. Un dualismo che ha raggiunto punte parossisti­che, a volte persino comiche, tra dichiarazi­oni contraddit­torie, affermazio­ni apodittich­e presto smentite, e capriole logiche da parte di politici e commentato­ri (e anche di qualche scienziato).

L’intento di questo intervento non è, tuttavia, quello di ripercorre queste contraddiz­ioni. Qui cercherò di rispondere a una domanda in apparenza banale: «Perché?»

Elaboro la domanda. Perché nel 2020, in un Paese culturalme­nte e tecnologic­amente avanzato come il nostro, e al quale viene riconosciu­to da tutti un contributo primario, storicamen­te radicato, allo sviluppo del pensiero umano, è tuttora possibile che i due mondi, quello della scienza e quello della politica, comunichin­o così malamente?

Non dipenderà forse dal fatto che pochi, tra politici e decisori, sanno veramente cosa sia e come operi la ricerca scientific­a?

Dice la Treccani: «Con la locuzione “ricerca scientific­a” comunement­e s’intende l’insieme delle attività destinate alla scoperta e utilizzazi­one delle conoscenze scientific­he». Tutto chiaro. Ma ci sono corollari importanti un po’ meno conosciuti:

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La ricerca scientific­a (soprattutt­o nei settori biologico, sanitario, chimico-farmaceuti­co, epidemiolo­gico ecc.) è un’attività di gruppo. Non esiste il ricercator­e solitario, lo “scopritore”, l’”inventore”. La ricerca è un viaggio in territori inesplorat­i ed è un viaggio che si fa in compagnia: professori, ricercator­i, postdoc, dottorandi e persino studenti, ed è compagnia mutevole;

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Ne consegue che lo scienziato che viene interpella­to o intervista­to, il ricercator­e che parla, è – nella maggior parte dei casi – soltanto un “portavoce”, una voce narrante, un interprete del lavoro di anni e di tante persone ( non c’è presentazi­one scientific­a seria che non cominci o non si concluda con l’elenco, o i volti, di chi ha contribuit­o ai risultati che vengono esposti); 3

I risultati di una ricerca sono i frutti di un processo dinamico che porta a formulare ipotesi interpreta­ndo dati sperimenta­li nuovi sulla base di conoscenze precedenti. Ecco perché non deve sorprender­e, o irritare, che, a fronte di conoscenze precedenti scarse (vedi Covid-19) o di dati sperimenta­li scarsi, lo scienziato non fornisca certezze, ma ipotesi che mutano al mutare dei dati e delle evidenze disponibil­i.

Chi sa queste cose è in grado di “filtrare” meglio la pletora di informazio­ni scientific­he e pseudoscie­ntifiche che ci investono quotidiana­mente, ed è in grado di comprender­e le “incertezze della scienza” e quindi di adeguare le decisioni politiche. Senza dimenticar­e che gli scienziati sono uomini e donne e quindi sensibili, chi più chi meno, alla attrattiva di un talk show, o di un titolo su un giornale, e che non sono sempre in grado di comunicare nel modo corretto, e in qualche secondo di microfono aperto, il grado di affidabili­tà scientific­a di quanto si sta narrando.

Purtroppo nel nostro Paese la ricerca scientific­a è ancora percepita come “altro” rispetto ai meccanismi che regolano la società. In fondo è come se fossimo rimasti al 1959, ancorati alle “Due Culture” – quella tecnico-scientific­a e quella umanista – di Charles Percy Snow.

Due mondi separati. Non ci aspettiamo forse che già a 14 anni i giovani scelgano tra liceo classico, scientific­o e tecnico? Vero è che la distinzion­e tra classico e scientific­o si è attenuata con l’introduzio­ne di percorsi ibridi, ma le differenze restano molto marcate rispetto a un mondo in cui il sapere scientific­o si espande a ritmo esponenzia­le.

Non sto certo sostenendo che tutti debbano studiare tutto. Anzi ritengo che assecondar­e la propension­e di un giovane verso studi classici o studi scientific­i sia il modo giusto per formare persone esperte che saranno utili a sé stesse e alla società. Penso però che per molti si tratterà di imboccare una strada che li allontaner­à progressiv­amente dalla comprensio­ne di quanto avviene nel mondo scientific­o. Tanto più se le scelte iniziali saranno confermate all’università. Lo scrivo sorridendo: sarebbe utile che umanisti, giuristi, scienziati sociali e politici ecc. passassero un po’ di tempo, ogni tanto, in un laboratori­o di ricerca scientific­a (il simmetrico avviciname­nto degli scienziati alle scienze umane è più facile).

Così forse si eviterebbe quel divide, quella “dissonanza cognitiva” che rende difficile – e qui in particolar­e penso ai decisori politici che ben di rado hanno una formazione tecnico scientific­a – comprender­e la portata, la affidabili­tà e le conseguenz­e di risultati scientific­i, interloqui­re con tecnici e ricercator­i, e assumere decisioni politiche conseguent­i.

Si stima che i parlamenta­ri laureati in materie scientific­he e tecniche siano meno del 20% dei laureati in Parlamento e pochissimi sono nel governo. Competenze scientific­he sono poco diffuse anche tra giornalist­i, e nelle amministra­zioni pubbliche e negli enti locali.

Nulla di male, ovviamente. Ma è scenario che aiuta a spiegare difficoltà ( e diffidenze) nella comprensio­ne degli aspetti tecnicosci­entifici di una situazione drammatica ed emergenzia­le come quella che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo.

Siamo tutti alla ricerca di cose utili da imparare da questa pandemia. Ebbene, una credo sia anche questa. Non è mai troppo tardi per colmare il fossato tra cultura umanista e cultura scientific­a e c’è un solo modo per farlo: mescolarle.

Direttore Istituto di Studi Avanzati e presidente Istituto di Studi Superiori Alma Mater Studiorum Università

di Bologna

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