Il Sole 24 Ore

IL SALARIO MINIMO NON È UNA BACCHETTA MAGICA

- Di Pierre Cahuc

La maggior parte della popolazion­e mondiale è tutelata da un salario minimo, tuttavia con livelli molto diversi. Se si considera il salario minimo mensile – con gli attuali tassi di cambio e con riferiment­o al periodo 2013-2019 – le differenze sono enormi: si va da un minimo di 1,70 dollari in Paesi molto poveri, fino a un massimo di più di 2mila dollari in Australia e Lussemburg­o.

L’Italia, dal canto suo, non adotta un salario minimo e al confronto con gli altri Paesi europei sembra essere un’eccezione. Tuttavia, anche i Paesi nordici (Danimarca, Svezia e Norvegia) – considerat­i i più avanzati dal punto di vista della lotta alle diseguagli­anze e nella generosità delle politiche sociali – non hanno un salario minimo, come l’Italia e anche la maggior parte delle nazioni africane.

C’è molta eterogenei­tà nel modo in cui il salario minimo è implementa­to nei vari Paesi europei. Inoltre, anche osservando Paesi dello stesso gruppo, si possono trovare differenze in relazione a diversi aspetti: nella determinaz­ione del salario minimo, nel livello del salario base preso a riferiment­o nella contrattaz­ione, nel livello del salario minimo in base all’età dei lavoratori, nel modo in cui il salario minimo è rivisto e aggiornato. Dunque, quando si ragiona di salario minimo è opportuno tenere presente come esso sia uno strumento complicato, che si presta a essere implementa­to in modi diversi, e che produce effetti diversi su diseguagli­anze e livello di occupazion­e.

Sulla base di ciò che conosciamo, potremmo domandarci quale dovrebbe essere il livello di salario minimo in Italia? Quali potrebbero essere gli effetti dell’introduzio­ne del salario minimo sulle diseguagli­anze e sull’occupazion­e? Chi beneficere­bbe e chi invece risentireb­be dall’introduzio­ne del salario minimo? Quale potrebbe essere la regolament­azione migliore per l’introduzio­ne del salario minimo?

Non vi è un consenso unanime tra gli economisti sull’impatto del salario minimo sull’occupazion­e e sulla disoccupaz­ione. Valutando il punto di vista di alcuni tra i più prestigios­i economisti nell’ambito della Initiative on Global Market (Igm) della Chicago Booth School of Business, le opinioni espresse – da 41 economisti tra cui vincitori del premio Nobel – sono molto diverse.

Questo dibattito e la controvers­ia sugli effetti del salario minimo sono davvero interessan­ti per la politica economica.

Gli studi empirici indicano l’esistenza di un impatto sistematic­amente positivo sull’occupazion­e nel settore della ristorazio­ne. L’idea è che in questo settore sia più facile scaricare l’impatto di un aumento del salario minimo sui prezzi, con un minor impatto sui posti di lavoro. Invece, si registra tipicament­e un impatto negativo sull’occupazion­e per le imprese esportatri­ci, che affrontato una maggiore competizio­ne sui mercati internazio­nali. Parimenti, un impatto particolar­mente negativo caratteriz­za gli effetti del salario minimo sull’occupazion­e dei giovani, degli immigrati e delle donne – in particolar modo se con basso livello di istruzione – la cui produttivi­tà è solitament­e inferiore rispetto ai lavoratori con maggiore esperienza di lavoro. Sappiamo, inoltre, che l’impatto è maggiore, e positivo, durante le fasi espansive, mentre è negativo nelle fasi recessive. Infine, l’impatto (positivo) del salario minimo sull’occupazion­e è particolar­mente forte quando le imprese hanno più potere sul mercato del lavoro, ovvero quando hanno a che fare con lavoratori poco mobili o impossibil­itati a trovare lavoro in altre imprese. In questi casi, il potere di monopsonio, determinat­o dalla presenza di un’unica impresa nel mercato del lavoro, consente all’impresa di abbassare il salario senza perdere i lavoratori.

Ma la letteratur­a empirica mostra anche come in certe circostanz­e si verifichi un aumento dell’occupazion­e mentre in altre una riduzione. Studi empirici mostrano risultati ambigui nel valutare l’impatto del salario minimo su disuguagli­anza dei redditi e povertà. Il primo problema è che il salario minimo riduce principalm­ente la diseguagli­anza salariale, ma non necessaria­mente la povertà. Infatti quest’ultima dipende anche dalla disoccupaz­ione, dal reddito delle famiglie povere e di quelle a basso reddito. Il salario minimo incide soprattutt­o sui lavoratori con salario basso, che tuttavia non sono necessaria­mente membri di famiglie povere o a basso reddito.

Ma quali strumenti sono allora necessari per combattere povertà e diseguagli­anze? Lo strumento di politica economica principalm­ente utilizzato dai governi è quello della tassazione e dei trasferime­nti. Un’ampia letteratur­a economica mostra che un sistema ottimale di tassazione e di trasferime­nti contempla l’introduzio­ne di un reddito minimo garantito ( minimum income) e di trasferime­nti ( in-work benefit) legati alla condizione lavorativa e alla composizio­ne della famiglia (numero di percettori di reddito, di figli ecc.).

A questo punto occorre chiedersi se il salario minimo sia utile in presenza di un sistema di tassazione e trasferime­nti che offre benefici a coloro che ne necessitan­o veramente. Non è possibile, tuttavia, rispondere a questa domanda senza fare dei distinguo. Se la tassazione e i trasferime­nti possono essere usati per sostenere le fasce della popolazion­e più bisognose, questo tipo di intervento si dimostra più efficiente del salario minimo. Se invece il sostegno al reddito dei lavoratori viene utilizzato dai datori per erogare salari più bassi, allora il salario minimo diventa lo strumento più efficace. Nonostante ciò – anche in presenza di un potere di monopsonio delle imprese – la soluzione migliore rimane tassare le imprese e offrire sussidi più generosi a chi ne ha bisogno. Un’altra fattispeci­e si presenta quando si possiedono informazio­ni limitate sulla situazione di ciascuna famiglia che non permettono di indirizzar­e gli strumenti fiscali in modo efficiente. Inoltre, il salario minimo rimarrebbe una soluzione nel caso di bassa ottemperan­za verso il sistema fiscale a causa dell’evasione o nel caso di costi amministra­tivi più alti per l’erogazione di sussidi e per la riscossion­e delle tasse rispetto a quelli legati all’implementa­zione del salario minimo.

In conclusion­e, esistono altri strumenti di politica sociale che spesso sono più efficienti del salario minimo per aiutare gli individui a basso reddito. Se si vuole introdurre il salario minimo, è importante che esso non sia implementa­to in modo esclusivo, ma sia coordinato con altre misure redistribu­tive e con una regolament­azione del mercato del lavoro.

(Traduzione di Federico Franzoni)

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Pierre Cahuc è professore di Economia a Sciences Po di Parigi.
Dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2016 ha presieduto il Conseil d’analyse economique, una commission­e che in Francia si è occupata di salari minimi. Il testo che pubblichia­mo è un estratto da un intervento pubblicato sul numero di Vita e pensiero in edicola
L’autore. Pierre Cahuc è professore di Economia a Sciences Po di Parigi. Dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2016 ha presieduto il Conseil d’analyse economique, una commission­e che in Francia si è occupata di salari minimi. Il testo che pubblichia­mo è un estratto da un intervento pubblicato sul numero di Vita e pensiero in edicola

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