WEB, DA TASSARE LA STABILE VIRTUALE
La crescente digitalizzazione dei consumi rivoluziona quotidianamente la vita e le abitudini degli individui e con esse i modelli di organizzazione e gestione delle imprese. Tale inarrestabile processo comporta una rivisitazione dei radicati criteri di territorialità e sovranità fiscale.
Non è un caso che il primo piano d’azione dell’ambizioso progetto Beps, elaborato in sede Ocse, ha riguardato proprio le “sfide fiscali” poste dal processo di digitalizzazione. Tema, questo, carico di implicazioni politiche e assai divisivo tra le due sponde dell’Atlantico (molte multinazionali dell’hi-tech condividono la bandiera a stelle e strisce). Emblematiche della difficoltà di elaborare proposte condivise in ambito internazionale sono proprio le conclusioni “aperte” e di compromesso dell’Action 1 del Beps, così come l’incapacità degli Stati Ue di traguardare risultati comuni: le proposte di direttive su web tax e presenza digitale significativa sono da tempo al palo, complice il veto di Paesi membri interessati dalla prospettiva di attrarre, a condizioni vantaggiose, i giganti del web. Situazione, questa, che, ancora una volta, solleva e rende evidente, in taluni casi, l’opportunità di modifica del processo decisionale comunitario in ambito fiscale, nel senso del possibile passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata, come pure auspicato dalla Commissione Ue (Com(2019)8 final).
Del resto, proprio in questi giorni, il commissario Gentiloni ha fatto sentire la propria voce affinché l’Ocse superi finalmente l’attuale impasse e definisca regole condivise, minacciando altrimenti una risposta unilaterale dell’Ue. C’è da sperare che ciò accada realmente.
Il tema, non a caso, si tinge di attualità proprio nei giorni della pandemia, la quale ha aumentato le attività e i profitti dei giganti del web, spesso a discapito dell’“economia fisica”, condizionata dal lockdown. Nei giorni del black friday il dibattito pubblico, anche in Italia, è stato nuovamente dominato dalla web tax (di fatto non ancora attiva nel nostro Paese per mancanza dei provvedimenti attuativi dell’amministrazione finanziaria), di cui pure si è invocato un potenziamento in termini di aliquota (si veda proposta di alcuni governatori di Regione).
Mi sia però consentito osservare che l’implementazione della “imposta sui servizi digitali”, così come anche riscritta dalla legge di bilancio 2020, rappresenta pur sempre una soluzione di second best. Ciò non solo per la scarsa incisività dell’attuale misura, vista l’aliquota impositiva assai ridotta (3%), ma anche per il rischio di traslazione sugli utenti, cui potrebbe essere ribaltato il maggior “costo fiscale”. Se ciò potrebbe, in qualche modo, perequare gli svantaggi dei concorrenti “fisici” che risentono dei costi di struttura e subiscono il free riding ridingg di quelli virtuali (quante paia di scarpe sono state comprate online dopo essere state provate in un negozio fisico?), non si tratta necessariamente della soluzione più adeguata, né di quella più facile da implementare.
Il dibattito “web tax sì, web tax no” spesso trascura che il nostro ordinamento già ammette la possibilità, a certe condizioni, di attrarre a tassazione il reddito prodotto dai giganti dell’hi-tech, ricostruendone la ricchezza generata in Italia, come già sta efficacemente accadendo con la proficua collaborazione di procure e amministrazione finanziaria.
Il presupposto è nell’articolo 162 del Tuir, in materia di stabile organizzazione, e in particolare in una norma (il comma 2, lettera f-bis), introdotta dal 2018, che consente la tassazione in Italia dei redditi prodotti da soggetti esteri tramite «una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso».
La disposizione, dunque, ammette l’ipotesi di stabile organizzazione “digitale”, non necessariamente dotata di una “apparente” consistenza fisica in Italia, come accade nel tipico modello di business dei giganti dell’online. Tuttavia, la concreta individuazione della stabile “digitale”, in assenza di parametri normativi certi, non manca di sollevare perplessità e aprire zone d’ombra, che, unitamente al mancato efficace coordinamento con le norme convenzionali, sono il tipico strumento di legittimazione di condotte di aggiramento.
Sarebbe allora il caso di migliorare tale coordinamento ed eliminare gli elementi di indeterminatezza.
Si dovrebbe dare a essa maggiore efficacia, prevedendo meccanismi di automatismo nell’applicazione. Ad esempio, perché non fissare, sul modello delle norme di contrasto all’estero-vestizione, una presunzione legale relativa (con inversione dell’onere dalla prova in capo al contribuente) di “presenza digitale significativa”, qualora siano superati certi parametri di attività e volume di affari in ambito “digitale”, magari facendo tesoro delle disposizioni già adottate nel contesto dell’“imposta sui servizi digitali”? Ciò potrebbe poi essere completato con la previsione di una procedura ad hoc, in contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, che, salvaguardando le previsioni convenzionali e senza eccessivi oneri per il contribuente, consenta di individuare le stabili “virtuali” e, soprattutto, i parametri di attribuzione a esse del reddito tassabile in Italia.
Insomma, in attesa delle auspicabili evoluzioni internazionali (in primis il Pillar One) ritengo che la strada maestra per una tassazione equa e pienamente coerente con i fondamenti dell'imposizione internazionale sia quella del potenziamento della disciplina della stabile virtuale.