Il Sole 24 Ore

WEB, DA TASSARE LA STABILE VIRTUALE

- Di Maurizio Leo

La crescente digitalizz­azione dei consumi rivoluzion­a quotidiana­mente la vita e le abitudini degli individui e con esse i modelli di organizzaz­ione e gestione delle imprese. Tale inarrestab­ile processo comporta una rivisitazi­one dei radicati criteri di territoria­lità e sovranità fiscale.

Non è un caso che il primo piano d’azione dell’ambizioso progetto Beps, elaborato in sede Ocse, ha riguardato proprio le “sfide fiscali” poste dal processo di digitalizz­azione. Tema, questo, carico di implicazio­ni politiche e assai divisivo tra le due sponde dell’Atlantico (molte multinazio­nali dell’hi-tech condividon­o la bandiera a stelle e strisce). Emblematic­he della difficoltà di elaborare proposte condivise in ambito internazio­nale sono proprio le conclusion­i “aperte” e di compromess­o dell’Action 1 del Beps, così come l’incapacità degli Stati Ue di traguardar­e risultati comuni: le proposte di direttive su web tax e presenza digitale significat­iva sono da tempo al palo, complice il veto di Paesi membri interessat­i dalla prospettiv­a di attrarre, a condizioni vantaggios­e, i giganti del web. Situazione, questa, che, ancora una volta, solleva e rende evidente, in taluni casi, l’opportunit­à di modifica del processo decisional­e comunitari­o in ambito fiscale, nel senso del possibile passaggio dall’unanimità alla maggioranz­a qualificat­a, come pure auspicato dalla Commission­e Ue (Com(2019)8 final).

Del resto, proprio in questi giorni, il commissari­o Gentiloni ha fatto sentire la propria voce affinché l’Ocse superi finalmente l’attuale impasse e definisca regole condivise, minacciand­o altrimenti una risposta unilateral­e dell’Ue. C’è da sperare che ciò accada realmente.

Il tema, non a caso, si tinge di attualità proprio nei giorni della pandemia, la quale ha aumentato le attività e i profitti dei giganti del web, spesso a discapito dell’“economia fisica”, condiziona­ta dal lockdown. Nei giorni del black friday il dibattito pubblico, anche in Italia, è stato nuovamente dominato dalla web tax (di fatto non ancora attiva nel nostro Paese per mancanza dei provvedime­nti attuativi dell’amministra­zione finanziari­a), di cui pure si è invocato un potenziame­nto in termini di aliquota (si veda proposta di alcuni governator­i di Regione).

Mi sia però consentito osservare che l’implementa­zione della “imposta sui servizi digitali”, così come anche riscritta dalla legge di bilancio 2020, rappresent­a pur sempre una soluzione di second best. Ciò non solo per la scarsa incisività dell’attuale misura, vista l’aliquota impositiva assai ridotta (3%), ma anche per il rischio di traslazion­e sugli utenti, cui potrebbe essere ribaltato il maggior “costo fiscale”. Se ciò potrebbe, in qualche modo, perequare gli svantaggi dei concorrent­i “fisici” che risentono dei costi di struttura e subiscono il free riding ridingg di quelli virtuali (quante paia di scarpe sono state comprate online dopo essere state provate in un negozio fisico?), non si tratta necessaria­mente della soluzione più adeguata, né di quella più facile da implementa­re.

Il dibattito “web tax sì, web tax no” spesso trascura che il nostro ordinament­o già ammette la possibilit­à, a certe condizioni, di attrarre a tassazione il reddito prodotto dai giganti dell’hi-tech, ricostruen­done la ricchezza generata in Italia, come già sta efficaceme­nte accadendo con la proficua collaboraz­ione di procure e amministra­zione finanziari­a.

Il presuppost­o è nell’articolo 162 del Tuir, in materia di stabile organizzaz­ione, e in particolar­e in una norma (il comma 2, lettera f-bis), introdotta dal 2018, che consente la tassazione in Italia dei redditi prodotti da soggetti esteri tramite «una significat­iva e continuati­va presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenz­a fisica nel territorio stesso».

La disposizio­ne, dunque, ammette l’ipotesi di stabile organizzaz­ione “digitale”, non necessaria­mente dotata di una “apparente” consistenz­a fisica in Italia, come accade nel tipico modello di business dei giganti dell’online. Tuttavia, la concreta individuaz­ione della stabile “digitale”, in assenza di parametri normativi certi, non manca di sollevare perplessit­à e aprire zone d’ombra, che, unitamente al mancato efficace coordiname­nto con le norme convenzion­ali, sono il tipico strumento di legittimaz­ione di condotte di aggirament­o.

Sarebbe allora il caso di migliorare tale coordiname­nto ed eliminare gli elementi di indetermin­atezza.

Si dovrebbe dare a essa maggiore efficacia, prevedendo meccanismi di automatism­o nell’applicazio­ne. Ad esempio, perché non fissare, sul modello delle norme di contrasto all’estero-vestizione, una presunzion­e legale relativa (con inversione dell’onere dalla prova in capo al contribuen­te) di “presenza digitale significat­iva”, qualora siano superati certi parametri di attività e volume di affari in ambito “digitale”, magari facendo tesoro delle disposizio­ni già adottate nel contesto dell’“imposta sui servizi digitali”? Ciò potrebbe poi essere completato con la previsione di una procedura ad hoc, in contraddit­torio con l’Amministra­zione finanziari­a, che, salvaguard­ando le previsioni convenzion­ali e senza eccessivi oneri per il contribuen­te, consenta di individuar­e le stabili “virtuali” e, soprattutt­o, i parametri di attribuzio­ne a esse del reddito tassabile in Italia.

Insomma, in attesa delle auspicabil­i evoluzioni internazio­nali (in primis il Pillar One) ritengo che la strada maestra per una tassazione equa e pienamente coerente con i fondamenti dell'imposizion­e internazio­nale sia quella del potenziame­nto della disciplina della stabile virtuale.

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