Il giorno di gloria dei Grandi Elettori, voce degli americani
È stato il giorno del Collegio Elettorale. Si è riunito nelle capitali statali, nelle aule dei loro parlamenti nonostante la pandemia. Solo tre stati, Nevada, Colorado e Utah, non hanno chiesto la presenza fisica e convocato sessioni virtuali. Un altro, il Delaware, ha requisito una palestra invece del Parlamento. I cosiddetti grandi elettori americani hanno depositato così il loro voto, in apposite urne durante l’intera giornata di ieri, da una costa all’altra degli Stati Uniti fino alla tarda serata. E hanno sancito l’elezione del prossimo presidente americano. Un risultato sicuro: 306, sulla carta, i voti per Joe Biden; 232 per lo sconfitto Donald Trump. Anche se l’esito finale può variare leggermente, qualora una manciata di elettori si ribelli al mandato. Nulla che possa alterare la vittoria di Biden, né le sue dimensioni.
Non è ancora l’ultimo atto delle tormentate elezioni americane: il Congresso, a camere riunite, riceverà i voti dell’Electoral College, assieme al responso del voto popolare dove Biden ha un vantaggio di 7 milioni di schede. E sotto gli occhi del vicepresidente Mike Pence li accetterà formalmente il 6 gennaio, procedendo a uno spoglio stato per stato in ordine alfabetico. In quell’occasione gli alleati di Trump potranno ancora dare battaglia. La legittimità di ogni delegazione di grandi elettori può essere contestata per iscritto da almeno un senatore e un deputato, obiezione seguita da un dibattito di massimo due ore e, se necessario, da un voto a maggioranza di Camera e Senato. La Camera è tuttavia in mano ai democratici e al Senato un drappello di repubblicani ha già riconosciuto il successo di Biden, rendendo nei fatti impensabile ribaltare il risultato. Tanto più dopo che decine di sfide legali intentate da Trump contro le elezioni sono state respinte dalla magistratura, Corte Suprema compresa.
Il responso dei grandi elettori, dunque, si è trasformato da passaggio rituale ad appuntamento decisivo verso la presidenza Biden. Chi sono? Nell’intento dei padri fondatori del Paese rappresentavano un filtro della volontà popolare, un compromesso tra chi voleva un’elezione diretta del presidente e chi preferiva affidarla al Congresso. Riflesso dello scetticismo per una popolazione rurale o poco informata, di timori che un candidato potesse far appello a folle per accumulare troppo potere. Da tempo sono però una formalità, in tutto 538, pari alla somma di deputati e senatori (più una rappresentanza del Distretto della capitale Washington Dc). Un mix di volti di politici noti e funzionari sconosciuti, di donatori e militanti, che compongono una delegazione scelta dal partito vincente in ciascun stato.
In 33 stati sono anche per legge tenuti a esprimersi a favore del candidato che ha ottenuto più voti alle urne. Negli altri 17 potrebbero decidere altrimenti, diventare “faithless electors”, senza fede. Ma essendo selezionati dai ranghi del partito, defezioni sono rare. Nel 2016 solo sette “tradirono”. Rischi inediti, questa volta, hanno semmai destato minacce esterne, di proteste e violenza. Per proteggere il Collegio elettorale, nel clima di tensione alimentato dal continuo rifiuto di Trump a riconoscere la sconfitta, stati quali il Michigan hanno barricato gli edifici parlamentari e intensificato misure di sicurezza. Nel fine settimana dimostrazioni di sostenitori di Trump, compresi gruppi estremisti, erano degenerate in scontri e arresti.
L’ultima speranza per Trump sarebbe trovare dei ribelli, ma le defezioni sono rare