Il Sole 24 Ore

L’Italia detassa i fondi, Piazza Affari spera in una spinta in più

Regole e mercato. La legge di Bilancio prevede che le società estere siano esentate, come le italiane, dalle ritenute su dividendi e plusvalenz­e: un incentivo a investire sugli asset domestici

- Maximilian Cellino

Economia stagnante, imprese dalla dimensione estremamen­te ridotta, instabilit­à politica e burocrazia insostenib­ile. Agli storici (e incontesta­bili) motivi addotti dagli investitor­i esteri per girare alla larga dal nostro Paese si aggiunge a volte un regime fiscale non certo attraente per chi viene da oltre frontiera, se non penalizzan­te. Su quest’ultimo elemento si sta però lavorando, almeno per eliminare alcune disparità di trattament­o e per attirare di conseguenz­a più capitali internazio­nali verso le nostre aziende, in una fase in cui la pandemia ha reso questa necessità ancora più elevata.

Tra le pieghe della Legge di Bilancio 2021 in approvazio­ne è spuntata infatti una norma che mira a ridurre, fino anche a eliminare, la tassazione a cui i fondi europei - di investimen­to collettivo (Oicr) oppure alternativ­i (Fia) - sono sottoposti quando ottengono dividendi o plusvalenz­e (capital gain) da società italiane. Sarebbe appunto una svolta su un aspetto discusso ormai da oltre un decennio, anche perché eliminereb­be una discrimina­zione nei confronti dei fondi italiani, che benefician­o di un’esenzione totale da qualsiasi forma di trattenuta alla fonte. La norma ha del resto già sollevato seri dubbi sulla compatibil­ità delle disposizio­ni nazionali con il diritto comunitari­o ed è stata oggetto di attività investigat­iva della Commission­e Ue perché lesiva della libertà di movimento dei capitali.

Le norme attuali

Non che la legislazio­ne fiscale italiana non preveda sgravi per chi investe da oltre frontiera: se i dividendi vengono distribuit­i a fondi pensione costituiti in Stati membri dell’Ue l’aliquota è dell’11% e può essere ulteriorme­nte ridotta all’1,2% se si tratta di società residenti e soggette alle imposte sul reddito in un altro Paese europeo che consenta un adeguato scambio di informazio­ni con l’Italia. Di fatto però queste esenzioni risultano inapplicab­ili e si finisce (quando si riesce) per ricadere nelle disposizio­ni dei trattati bilaterali contro la doppia imposizion­e, che prevedono in genere un’aliquota del 15 per cento. Oppure, come avviene nella maggior parte dei casi, si resta soggetti alla norma di base, che sottopone i dividendi erogati da società italiane verso l’estero a una ritenuta alla fonte del 26 per cento.

Ed è proprio su questa disposizio­ne che si intende agire, prevedendo un regime di esenzione che si estende anche alle plusvalenz­e realizzate dai fondi internazio­nali alle «partecipaz­ioni qualificat­e» italiane, anche queste attualment­e soggette a un’imposta sostitutiv­a della stessa aliquota. In questo modo si equiparere­bbero fra l’altro gli investimen­ti azionari a quelli sul debito societario, i cui proventi sono già di fatto esenti da imposte a carico di chi proviene da oltre confine.

Le opportunit­à per i fondi esteri

«La modifica potrebbe aprire il campo a soggetti esteri pronti a investire in Italia, che sono però scoraggiat­i da un trattament­o fiscale molto più penalizzan­te rispetto a quanto previsto in altri Paesi europei» sottolinea Francesco Guelfi, Partner e responsabi­le del Dipartimen­to tributario di Allen & Overy, ricordando come all’esame del Parlamento vi siano anche emendament­i che riguardano fra l’altro l’estensione a fondi extra-europei, la retroattiv­ità della norma e la possibile applicazio­ni anche a vantaggio di società intermedie riconducib­ili però ai fondi destinatar­i dell’esenzione .

Se approvate, le nuove disposizio­ni potrebbero avere sotto quest’ultimo aspetto anche un impatto significat­ivo, semplifica­ndole, sulle strutture dei fondi di private equity oppure distressed o special situation. «Queste – spiega Guelfi - utilizzano attualment­e sub-holding aziendali con sede nell’Unione come veicoli per detenere partecipaz­ioni italiane e trarrebber­o vantaggio dall’adozione di un modello di strutturaz­ione semplifica­to per raggiunger­e lo stesso scopo». Alleviare o eliminare un onere simile potrebbe dunque funzionare come ulteriore incentivo all’afflusso di capitali, o quantomeno favorire l’investimen­to verso imprese di dimensione più ridotta, che resterebbe­ro altrimenti ignorate.

I possibili benefici

Difficile stabilire a priori l’effetto finale dell’introduzio­ne dell’esenzione. Di certo, rinunciare al gettito fiscale derivante dall’imposizion­e non sembra un sacrificio particolar­mente pesante per il Tesoro: «Dall’ultimo bollettino tributario delle entrate 2020, emerge come nei primi 10 mesi dell’anno, l’incasso derivante dalla tassazione dei redditi di capitale diversi dagli interessi è stato pari a 3,6 miliardi - segnala Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte - ma soltanto una minima parte di questa cifra può essere ricondotta a fondi di diritto estero».

Al contrario, la spinta data da una maggior apertura del mercato dei capitali potrebbe essere anche rilevante. «Il potenziale minor gettito della mancata imposizion­e sui dividendi potrebbe essere compensato dal beneficio derivante dall’aumento della capitalizz­azione delle società quotate a Piazza Affari. Un incremento del 10%, ovvero circa 60 miliardi, potrebbe non essere impossibil­e visti i livelli di bassa capitalizz­azione di partenza attuali della borsa italiana rispetto al panorama globale », aggiunge Cesarano, facendo notare come in questo momento l’Italia sia tornata a fare capolino nelle scelte degli investitor­i.

«Per la prima volta da molto tempo - spiega infatti l'economista di Intermonte - nel sondaggio mensile fra gli operatori di Bofa-Merrill Lynch il nostro Paese viene inserito fra quelli da sovrappesa­re il portafogli­o per il prossimo anno, anche in virtù del fatto di essere il principale beneficiar­io del Recovery Plan». Incentivar­e (o almeno non penalizzar­e) i fondi esteri sul piano fiscale in modo da fornire ulteriore spinta sarebbe quindi un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

Secondo gli addetti ai lavori la riforma può avere impatto sulla struttura dei private equity

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