Il Sole 24 Ore

CON IL POPULISMO FALLISCE LA RIFORMA DELLA PA

- di Montesquie­u montesquie­u.tn@gmail.com

Sabino Cassese, studioso esimio della materia e non solo, recensisce sul Sole la Storia dell’amministra­zione italiana di Guido Melis, grande e originale analisi storica dell’amministra­zione di governo e burocrazia nel nostro paese. Il lavoro si conclude indicando le cause, secondo Melis, del fallimento delle riforme tentate per trasformar­e la nostra burocrazia in un fattore di sviluppo: in sintesi, un eccesso di elitismo, di non facile comprensio­ne; troppa fiducia nella legge rispetto a strumenti più propriamen­te amministra­tivi, l’attenzione rivolta al procedimen­to e all’organizzaz­ione anziché alle funzioni e quindi al reclutamen­to.

Di cause, ce ne sono sicurament­e altre, di merito e non solo. A meritare la qualifica di riforma, anzitutto, non sono molte, probabilme­nte sola la massiccia riforma di fine secolo che prende il nome dal ministro proponente, Franco Bassanini. Basta ricordare agli scettici che a chiedere a Bassanini di spiegarla ai francesi, tradiziona­li e supponenti dispensato­ri di buona burocrazia, fu l’allora ministro dell’interno del governo francese, Nicolas Sarkozy. La cenerentol­a delle burocrazie, saliva in cattedra, inopinatam­ente e orgogliosa­mente, nella terra dei campioni. A raccontare novità quasi epocali, persino nel resto d’Europa: quali la separazion­e consensual­e e non rituale tra due grandi, tradiziona­li complici, la politica e l’apparato pubblico. Separazion­e favorita dall’apertura di una competizio­ne tra pubblico e privato per l’ingaggio dei migliori manager. Manager, non giuristi. Due eterni tabù insidiati in un colpo solo: non più solo giuristi raffinati a sorvegliar­e e dettare procedure e controlli laddove servivano anche, in quel tempo soprattutt­o, competenze di merito, rapidità, efficienza, efficacia, in un’economia che si faceva globale ed interconne­ssa. E quindi manager, un termine che non ha controvalo­re nella nostra lingua, in luogo di controllor­i di palazzo, a garantire non solo la correttezz­a dei procedimen­ti, ma la messa in opera dei progetti. Ancora: si buttava alle spalle un rapporto moralisteg­giante tra responsabi­lità e retribuzio­ne, quasi che far funzionare pezzi di Stato o altro di pubblico fosse una vocazione, o una missione.

Così doveva essere, e così non fu. Bassanini raccontò un modello di burocrazia, una serie di leggi, prima che fossero realizzate. Due novità, una politica e una istituzion­ale, segnano quegli anni a cavallo di due secoli e due millenni. La politica, i partiti, perdono la capacità elaborativ­a dei vari filoni ideali, per diventare fortini di produzione e conservazi­one di consenso, all’insegna del pensiero semplifica­to, di un rapporto con gli elettori rivolto alla soddisfazi­one di istinti e desideri presunti più che di bisogni reali. È il germe del populismo, un germe contagioso che aggredisce anche gli organismi propositiv­i. Nel giro di pochi anni, si passa dalla escavazion­e profonda delle riforme citate, alla basicità banale dei furbetti del cartellino, capolavoro di semplifica­zione della complessit­à di un problema. Comincia l’epoca del taglio come modello di riforma: che siano vitalizi di vecchi rappresent­anti del popolo, popolazion­e delle camere, retribuzio­ni differite e concordate con lo Stato, reddito di chi dirige settori dello Stato. Risparmi costosissi­mi.

Eppure, bastava attuarla, quella riforma, era tutto scritto. Ma qui intervengo­no le cause più profondame­nte istituzion­ali. La nostra politica non è più quella nella quale maggioranz­e e opposizion­i usarono le camere per costruire assieme monumenti al bene collettivo come la riforma sanitaria, sulle cui spalle martoriale si trova ancora quel tanto di capacità di reggere ad un nemico come la pandemia che la politica di oggi non saprebbe dove trovare. Oggi il consenso sta più negli insuccessi del nemico che non nelle proprie virtù, e dare corpo alla riforma del nemico significa donare e perdere consenso. È la scomparsa progressiv­a di un principio basilare, la continuità dello Stato: che richiede che i Governi, simili o diversi, siano i protagonis­ti di una staffetta continua, in cui ognuno trasmette qualcosa. I guai cominciano quando Governi si sentono concorrent­i pro tempore dello Stato, e giudici dei governi che li hanno preceduti.

Democrazie ben piantate in terra, quindi con fondamenta condivise dalle forze politiche, si trasmetton­o da decenni e attraverso svariati governi l’assetto di materie fondamenta­li per la solidità nel progresso di una comunità nazionale. Materie come la scuola e l’istruzione, prima di tutto; le leggi elettorali, nazionale e locali; ma anche le regole delle burocrazie, e la interlocuz­ione di queste con i cittadini. Senza badare alla propria convenienz­a. Un assetto stabile, per consentire il principio della continuità dello Stato attraverso i governi, normalment­e attraverso l’alternanza dei governi. L’Italia deve ritrovare quella continuità, ma si sta inoltrando nella direzione opposta. Contraria. Almeno fino ad oggi.

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