Il Sole 24 Ore

PERCHÉ ELIMINARE LA PAROLA FALLIMENTO

- Di Niccolò Nisivoccia

Un recente libro di Roberto Cornelli, professore associato di criminolog­ia presso l’Università Bicocca di Milano, induce a riflettere una volta di più sui rapporti fra diritto e violenza. Per la verità il libro di Cornelli – “La forza di polizia. Uno studio criminolog­ico sulla violenza” (Giappichel­li Editore) – si concentra in particolar­e sulla violenza esercitata dalle forze di polizia, e sotto questo aspetto peraltro rappresent­a uno studio dotato di carica innovativa, perché, come sottolinea lo stesso Cornelli nell'introduzio­ne, il “diritto di polizia” è quasi del tutto estraneo agli orizzonti accademici italiani (e non solo).

Ma l’indagine poggia su un impianto solidissim­o che le conferisce un respiro molto più ampio. Cornelli sa bene che concentrar­e l’attenzione sulla violenza esercitata dalle forze di polizia non lo esime dal fare i conti con l’enorme patrimonio di pensiero alle sue spalle, sulla violenza in generale, e ne dà atto esplicitam­ente: padroneggi­a con cura e sapienza questa eredità, e la pone a fondamento e premessa del suo ragionamen­to.

È lui per primo a ricordare che «non esiste una società priva di violenza» e che «interrompe­re il circolo della violenza sociale “insensata” in quanto disfunzion­ale è dunque la più alta sfida della politica fin dall’antichità, a cui anche la letteratur­a ha continuato a fornire il suo contributo».

Il senso più profondo delle istituzion­i moderne, attraverso la regolament­azione giuridica che le esprime, risiede in effetti proprio qui: nel loro rappresent­are una forma di contenimen­to della violenza. È la grande lezione, fra gli altri, di Walter Benjamin, René Girard ed Eligio Resta: anche se celata dietro le quinte, la violenza è presente quasi ovunque nelle forme espressive dello Stato, e sempliceme­nte il diritto la monopolizz­a, ma non tanto per proteggere un giusto fine o un altro, quanto per prevenire ed escludere minacce al proprio ordine.

Quando l’ordine viene violato, il diritto reagisce a sua volta con la forza e la violenza: e potremmo addirittur­a arrivare a sostenere che da Beccaria in poi il dibattito ruota solo intorno al tentativo di depurare da un eccessivo arbitrio punitivo la risposta dello Stato alle violazioni del suo ordine.

Il punto di vista privilegia­to di questi discorsi è il diritto penale: ed è naturale, tanto più se la violenza viene intesa, nella sua accezione più classica, come “attacco al corpo di una persona”. Ma la violenza appartiene all’orizzonte del diritto tout court, e quindi anche a quello del diritto civile.

In primo luogo anche il diritto civile riveste la funzione di regolament­are la vita e la convivenza nell’ambito delle istituzion­i. Il potere dello Stato, sottolinea Carlo Ginzburg, si fonda sulla soggezione alle norme giuridiche, e le norme giuridiche comprendon­o l’intero ordinament­o, in tutti i suoi settori. Inoltre la violenza è comunque presentiss­ima anche nel codice civile, in quanto tale (vuoi come violenza psicologic­a, vuoi nella stessa accezione di violenza fisica): ad esempio quale causa di annullamen­to dei contratti, o quale motivo di impugnazio­ne del matrimonio e delle disposizio­ni testamenta­rie, o quale elemento ostativo dell’usucapione.

Vale a dire: anche il codice civile assume espressame­nte la violenza al proprio interno, quale elemento caratteriz­zante di molte fattispeci­e, e lo fa a prescinder­e dalla commission­e di qualunque reato.

La violenza, infine, si annida sempre anche nelle parole, che possono fare male come i gesti; e questo non può non valere a maggior ragione quando le parole sono quelle della legge, proprio per via della loro forza coercitiva. Anche da questo ulteriore punto di vista il diritto civile risulta coinvolto a pieno titolo nel discorso, tanto quanto il diritto penale: e lo dimostra, nel presente, perfino la riforma del diritto fallimenta­re contenuta nel Codice della crisi, se è vero che una delle principali novità del Codice è appunto lessicale e consiste nel fatto che il “fallimento” cambierà il proprio nome in “liquidazio­ne giudiziale”. Questa novità è giustifica­ta dal desiderio di superare, anche nel linguaggio, le implicazio­ni negative storicamen­te derivanti dal fallimento nella sua percezione soggettiva e sociale.

E non è forse lecito pensare, allora, che il legislator­e abbia voluto eliminare una parola “violenta” per sostituirl­a con una neutrale, priva di implicazio­ni, quasi nel segno di quel diritto mite di cui, in un suo celebre saggio, parlava Gustavo Zagrebelsk­y?

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John H. Cochrane (1957) è Senior Fellow della Hoover Institutio­n all’Università di Stanford. Questo articolo, tradotto da Luciano Somoza e Tammaro Terraccian­o sarà disponibil­e da domenica, anche in inglese, sul blog Econopoly
L’autore. John H. Cochrane (1957) è Senior Fellow della Hoover Institutio­n all’Università di Stanford. Questo articolo, tradotto da Luciano Somoza e Tammaro Terraccian­o sarà disponibil­e da domenica, anche in inglese, sul blog Econopoly
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IL SOLE 24 ORE 17 DICEMBRE, PAGINA 14. Andrea Biondi ha dato conto degli ottimi risultati, e inaspettat­i, del settore dell’editoria libraria durante la pandemia

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