IO, DON GIUSSANI E LA CONTINUITÀ TRA FRANCESCO E BENEDETTO XVI
In un anno duro per la Chiesa, tra lacerazioni e scandali, il pensiero e il racconto di sé, dalla Spagna povera degli anni 50 alla guida di Cl
«Ogni crisi è una provocazione. E, dunque, anche un invito alla libertà. Non esiste una meccanica inesorabile del male. Come non esiste un automatismo del bene. Sia il bene sia il male richiedono un esercizio, una risposta e una adesione da parte dell’uomo. L’umanità che ci scegliamo dipende da quali sono questo esercizio, questa risposta e questa adesione. L’insegnamento di Hannah Arendt sul valore di una crisi in quanto suscita le domande di fondo è prezioso, soprattutto adesso che, attraverso la pandemia, viviamo l’esperienza di un nuovo genere di male. Questo vale per ognuno di noi, per chi ha la fede e per chi ha una visione più laica. E questo vale sia nel giardino segreto dell’anima di ognuno, nella ricerca di una speranza e nel non abbandono alla disperazione nonostante le morti e le malattie, le paure e le difficoltà materiali, sia nella dimensione pubblica, con la necessità di operare una rivisitazione della nostra organizzazione sociale e civile, dei rapporti fra economia e società e della visione generale delle cose».
Don Julián Carrón, successore nel 2005 di Don Luigi Giussani alla guida di Comunione e Liberazione, è al terzo piano della Fondazione Sacro Cuore. Siamo nel quartiere Feltre, un pezzo di Milano alla periferia della città che con la prossimità alla tangenziale, le sue scuole di buon livello che negli anni sono salite di posizione in posizione nelle classifiche di Eduscopio stilate dalla Fondazione Agnelli, i campi di calcio e di pallacanestro confinanti con i prati incarna bene la dimensione storica votata alla educazione e la riaffermazione della origine popolare – molto poco da Milano centro, Suv in doppia fila e colf filippina in attesa dell’uscita dei bambini dalle elementari – di questo movimento. Una cifra, nelle sembianze e nell’estetica, confermata da come si pone e da come è vestito Don Julián. Sembra un semplicissimo prete di parrocchia, pantaloni blu, camicia scura e maglione. Una normalità che riprende l’attitudine di portamento originaria, sintetizzata nel ricorso ai maglioni da parte di molti aderenti di CL, raccontata per la prima volta da Ezio Mauro nella prima metà degli anni Ottanta in una serie di articoli scritti sulla laicissima «Stampa» di Torino, allora diretta da Giorgio Fattori. Una normalità che evoca il protagonista del “Diario di un curato di campagna” dello scrittore francese Georges Bernanos: «La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si assomigliano tutte. Le parrocchie, naturalmente».
Come aperitivo, lui beve mezzo bicchiere di birra, mentre io prendo un crodino. Io assaggio le patatine e gli stuzzichini che si trovano sul tavolo, mentre lui non lo fa. Don Julián è arrivato – da Madrid e prima ancora dalla Spagna profonda e povera della Extremadura – a Milano in pianta stabile nel 2004. «Avevo la mia attività pastorale, gli studi del greco biblico e dell’aramaico antico e l’insegnamento
‘‘ LA PANDEMIA, COME OGNI CRISI, CI PROVOCA E INVITA ALLA LIBERTÀ. NON ESISTE UNA MECCANICA INESORABILE DEL MALE
universitario a Madrid, tutte le volte che Don Giussani mi incalzava “allora, quando vieni?” io dicevo che non dipendeva da me ma dall’Arcivescovo di Madrid, finché ho capito che non potevo più fare resistenza passiva quando lui ha scritto una lettera a Giovanni Paolo II, il quale poi ne ha parlato con il mio vescovo che ha dato il suo placet al mio trasferimento a Milano», spiega sorridendo.
Don Carrón è stato indicato dallo stesso Don Giussani come successore un anno prima di morire. Da poco è stato confermato per altri sei anni presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione: «La successione è un tema che tocca tutti i movimenti carismatici. Riguarda noi di Comunione e Liberazione con Don Giussani e, ad esempio, il Movimento dei Focolari con Chiara Lubich, a cui è succeduta Maria Voce. Il carisma è un dono dato alla persona che ha fondato il movimento. Ma il mistero dell’esistenza passa attraverso esperienze come l’accettazione di un disegno più grande, che contempla il contributo che ognuno di noi, con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, può dare affinché il carisma di un fondatore ormai scomparso riviva nell’esperienza, nelle visioni e nelle azioni di una comunità che continua a seguire la strada da esso iniziata».
La tavola è grande, così da riuscire a parlare bene, senza però correre eccessivi rischi per la salute. Entrambi ci togliamo la mascherina per pranzare nel rituale, che da triste è diventato abitudinario, del nostro desinare in privato e in pubblico in questi tempi strani. La bottiglia di vino rosso non viene stappata. Berremo entrambi soltanto acqua minerale. L’antipasto è del culatello.
Don Carrón è arrivato, sedici anni fa, da Madrid a Milano. Ma è partito da un piccolo borgo della Extremadura, Navaconcejo, dove è nato nel 1950. Il Secondo dopoguerra è stato molto duro, in una Spagna chiusa nel Franchismo e nell’arretratezza economica: « Navaconcejo è in una valle al centro del Paese, a sud di Salamanca. Era e rimane la terra delle ciliegie. Negli anni Cinquanta la mia regione assomigliava alle parti più desolate del vostro Mezzogiorno, ma senza i soldi del piano Marshall. Non avevamo fame, perché da contadini vivevamo dei prodotti della terra. Non sapevamo di essere poveri. Soltanto negli anni Sessanta, quando gli agricoltori della vallata si sono radunati in una unica cooperativa, siamo usciti un poco dalla povertà, perché tutti insieme riuscivamo a non dipendere troppo dalle oscillazioni di prezzo collegate alla stagionalità del prodotto agricolo. Finita la scuola dell’obbligo, poco più che bambini, chi in famiglia aveva un appezzamento aiutava a coltivare la terra e chi non l’aveva emigrava a Madrid, a Bilbao o a Barcellona. Mio padre, anche lui si chiamava Julián, era naturalmente un contadino. La fortuna mia, delle mie sorelle Virginia e Marie Carmen e di mio fratello Juan Manuel è stata che la famiglia di nostra madre Andrea esercitava il commercio all’ingrosso di frutta e verdura ai mercati generali di Madrid. E, quindi, noi, terminate le scuole dell’obbligo, avevamo un punto di riferimento solido nella capitale per continuare a studiare e a coltivare le nostre vocazioni».
In tavola, arriva un arrosto buonissimo. Con delle melanzane molto delicate. La povertà della Spagna raccontata da Don Carrón era materiale. Non spirituale e non culturale: «Un vecchio maestro di Navaconcejo mi ha raccontato che mio padre, quando andava o tornava dai campi, si fermava sotto le finestre della scuola e, rimanendo in sella al cavallo, ascoltava a lungo la voce dell’insegnante che usciva dalle aule durante la lezione. Era il suo modo per continuare a imparare e a studiare».
L’esperienza della Spagna è così vicina e così lontana. Don Carrón mi mostra sul suo tablet le foto in bianco e nero di Navaconcejo, la via principale stretta in mezzo alle case con la terra battuta e le pietre che danno consistenza alla strada per evitare l’alzarsi della polvere nell’arsura estiva e il trasformarsi in fango in primavera con la piena del fiume della valle, il Rio Jerte.
Arrivano piatti di frutta: arance, clementine e l’ultima uva. La Chiesa di oggi è dolente, segnata dagli scandali e piena di conflitti. Sembra, nel suo pencolare fra unione e disunione, la reincarnazione storica dei versetti del Libro del Siracide: «Se soffi su una scintilla, divampa; se vi sputi sopra, si spegne. Eppure ambedue le cose escono dalla tua bocca». Fra pochi giorni è Natale. Don Carrón evidenzia la continuità dei due papi, Francesco e il suo predecessore Benedetto XVI, che peraltro quindici anni fa da cardinale venne mandato in Duomo a Milano da Karol Wojtyla a pronunciare l’omelia dei funerali di Don Giussani.
«Ci sono una continuità del pensiero e una continuità del magistero», dice. «Entrambi partono dalla crisi del Cristianesimo modellato nella storia dalla vicenda europea, con le guerre di religione, la Riforma, la Controriforma e l’approdo all’Illuminismo. Un approdo che, alla fine, ha portato all’attuale crisi con la riduzione del Cristianesimo a etica oppure a dottrina oppure a ritualità. Quello che accomuna Ratzinger e Bergoglio è la sottolineatura che il Cristianesimo non è riducibile a questa o a quella cosa. Entrambi credono e professano la novità radicale del Cristianesimo, che è un evento con il suo mistero e la sua capacità di cambiare ogni cosa e ogni uomo. Il Concilio Vaticano II ha affermato che la Rivelazione è fatta di eventi e parole intimamente connessi: in loro si vede proprio questo. Pur con tutte le differenze fra due personalità così uniche, molti dei gesti compiuti da Bergoglio li avrebbe potuti compiere, nel loro significato intrinseco e nel loro senso profondo, anche Ratzinger. Pensiamo alla visita a Lampedusa l’8 luglio del 2013 e quella a Lesbo il 15 aprile del 2016, nelle due isole del Mediterraneo che sono gli snodi delle migrazioni che sono in corso dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa».
Siamo al caffè. È in questa radicalità che Don Carrón identifica la natura del Cristianesimo che deve essere di attrazione e di comunione, non di proselitismo e di sottomissione. «Non è soltanto una questione di fede. È anche una questione dell’umano. Gesù si spoglia del suo potere divino e, con questo, lancia la sfida più potente al potere. Solo la verità incarnata in quell’uomo eccezionale, la cui nascita ricordiamo tra pochi giorni, rende liberi, perché soddisfa il bisogno sterminato del cuore dell’uomo. Se tu hai un vuoto dentro, non importa che tu sia cristiano, ateo, agnostico e di un’altra religione, lo riempirai con i beni materiali e con la sottomissione degli altri, che sono le forme di potere terrene più semplici, diffuse e affascinanti», conclude Don Julián Carrón, prete di campagna venuto dall’ Extremadura povera e agricola in questa periferia urbana di Milano, ai bordi e nel profondo dell’anima dell’Occidente.