Interdipendenza e sovranismo non possono convivere
Dopo quattro anni e mezzo di tormento, il Regno Unito il 1° gennaio uscirà dalla porta principale del mercato unico. Brexit sarà anche una realtà fisica, la materializzazione di un trauma geopolitico multilaterale e non più solo slogan, minaccia o sintetico neologismo. Forse Londra vi rientrerà, prima della fatidica scadenza, dalla finestra di un accordo commerciale in extremis che possa rendere il distacco meno dannoso per cittadini e imprese dell’Unione europea.
I negoziati sul nuovo accordo di partenariato sono stati difficili, con risvolti da psicodramma nazionale sul versante britannico. Il premier Boris Johnson ha incarnato meglio dell’evanescente e a tratti ambigua Theresa May il desiderio del Regno Unito di volersi riprendere non solo la propria autonomia – un desiderio più o meno latente durante tutti i quarantasette anni di appartenenza alla UE, confermati da un primo referendum nel 1975, dai “rebates” e dalla mancata adesione all’Unione monetaria – ma l’intera sovranità nazionale.
Johnson è sintesi perfetta di sentimento insulare, orgoglio combattente e neo populismo. Allo stesso modo David Cameron è il simbolo di un calcolo politico talmente sbagliato, l’azzardo del referendum nel giugno 2016, da essersi rivelato disastroso e lacerante: per il suo Paese e per l’Europa. È dunque stato difficile per l’Unione negoziare con chi, come il premier britannico, vedeva in Brexit il coronamento di un progetto (anche) sovranista. La ministra degli Esteri spagnola, Arancha Gonzalez Laya, ha chiarito in maniera esemplare in un’intervista a Sky News la contraddizione e l’ipocrisia di Londra nella fase finale delle trattative: «Un negoziato commerciale non si basa sull’affermazione della propria sovranità, ma sulla interdipendenza». Un concetto che Johnson ha fatto finta di non riconoscere. Tanto che i due punti dirimenti dei colloqui con il capo negoziatore della UE, Michel Barnier, sono stati il cosiddetto “level playing field”, cioè condizioni e standard produttivi, ambientali, sociali e di lavoro condivisi tra imprese europee e britanniche per evitare una concorrenza sleale, e gli aiuti di Stato con relativi meccanismi di controllo e sanzione.
La battaglia sui diritti di pesca nel Mare del Nord è simbolicamente importante e ad alto tasso di spettacolarità, ma è davvero un side show rispetto a quella sulle regole della concorrenza per le quali Bruxelles non può permettersi asimmetrie a favore di Londra. Il timore di fondo, del resto, è stato quello di veder nascere al di là della Manica una Singapore-on-Thames.
Un’area di libero scambio tra partner geograficamente contigui non è compatibile con il raggiungimento della piena sovranità nazionale. E nemmeno, nel caso britannico, si può fare troppo affidamento sulla capacità di raggiungere rapidamente simili accordi con altri grandi Paesi e importanti economie. Se c’è un aspetto che Londra finirà per rimpiangere è la capacità negoziale dell’Unione europea in questo campo. Soprattutto ora che la “special relationship” con gli Stati Uniti si presenta sotto una luce completamente diversa dopo la vittoria di Joe Biden e il venir meno della sponda di Donald Trump.
Di recente Londra ha raggiunto intese di libero scambio con Vietnam e Singapore; in settembre c’è stata quella con il Giappone, terza economia mondiale che però rappresenta il 2% del commercio mondiale del Regno Unito contro il 50% dell’Unione europea, la quale a sua volta ha già simili accordi con tutti e tre i Paesi asiatici. Sono cifre e pesi relativi che sicuramente hanno fatto riflettere Downing Street, dove accanto al furore ideologico sovranista di una componente sempre più importante dei Tories c’è una irrinunciabile dose di pragmatismo anglosassone. Sarebbe sufficiente che Boris Johnson venisse a patti con se stesso per rendere Brexit un terremoto di magnitudo attenuata.